sabato 31 gennaio 2009

Potreste lasciarci la vostra opinione?

E' sabato sera, ultimo giorno di gennaio.
Non è una novità parlare d'amore, ma forse d'inverno ... è più intimo.
In realtà tra me e Cattivo.Maestro c'è in questi giorni una piccola ... disputa.

L'argomento è dei più vecchi, si potrebbe persino dire che è trito e ritrito, ma dentro c'è persino il nostro grande Fabrizio De Andrè.

Siete tutti chiamati in causa :)
Potete lasciare i commenti qui da me o sul blog del Cattivo.Maestro (il link è più su)
ma su quel blog dovete andare, perché è lì che è scritto ciò di cui si parla.

Grazie di cuore per le vostre risposte.

giovedì 29 gennaio 2009

Ode alla semplicità

Semplicità, io ti domando,
mi hai sempre accompagnato?
E ora, di nuovo t'incontro
seduta sulla mia sedia?
Oggi giorno
non vogliono più accettarmi
con te,
mi guardano di sbieco,
si domandano chi è
la chioma rossa.

Il mondo,
mentre ci incontravamo
e ci riconoscevamo,
si riempiva di stupidi
tenebrosi,
di figli di frutta pieni
di parole
come i dizionari,
pieni di vento
come un ventre che ci vuol giocare
un brutto tiro,
e ora che arriviamo
dopo tanti viaggi
siamo fuori posto
nella poesia.

Semplicità, che cosa terribile ciò che ci succede:
non vogliono riceverci
nei salotti,
i caffè sono pieni
dei più squisiti
pederasti,
e io e te ci guardiamo in faccia,
non ci vogliono.

Allora
ce ne andiamo
sulla spiaggia,
nei boschi, di notte
l'oscurità è nuova,
ardono appena lavate
le stelle, il cielo
è un campo di trifoglio
turgido, scosso
dal suo sangue
ombroso.

Di mattina
andiamo in panetteria,
il pane è tiepido come un seno,
odora
il mondo di fresco
pane appena sfornato.
Romero, Ruiz, Nemesio,
Rojas, Manuel Antonio,
panettieri.
Come sono simili
il pane e il panettiere,
com'è semplice la terra
di mattina,
più tardi è ancora più semplice,
e di notte
è trasparente.
Per questo
cerco
nomi
fra l'erba.

Come ti chiami?
chiedo
a una corolla
che d'improvviso
piegata a terra fra le pietre povere
s'è arsa come un lampo.
E così, semplicità, andiamo
a conoscere
gli esseri nascosti, il segreto
coraggio di altri metalli,
a guardare la bellezza delle foglie
a conversare con uomini e donne
che soltanto per essere tali
sono insigni,
e di tutto,
di tutti,
semplicità, mi fai innamorare.
Vengo con te,
mi immergo nel tuo torrente
di acqua chiara.
E allora protestano:
Chi è costei
che va con il poeta?
Noi non vogliamo avere
nulla a che fare
con quella provinciale.
Ma se è aria, è lei
il cielo che respiro.
Io non la conoscevo o non la ricordavo.
Se mi hanno visto
una volta
andare con misteriose
odalische,
si è trattato soltanto di tenebrose
distrazioni.
Ora,
amor mio,
acqua,
tenerezza,
luce luminosa o ombra
trasparente,
semplicità,
vieni con me per aiutarmi a nascere,
per insegnarmi
un'altra volta a cantare,
verità, virtù, fonte,
vittoria cristallina.

(Pablo Neruda)

mercoledì 28 gennaio 2009

Eva

L'identificazione di Eva con il Diavolo (intendendo Eva anche nell'accezione più generica di donna) che ha pervaso sotterranea e strisciante un po' tutta la storia della cristianità, è stata particolarmente esplicita nei testi sia biblici, sia dei Padri della Chiesa e - in seguito - durante la sanguinaria caccia alle Streghe.

In uno dei libri della Bibbia (l'Ecclesiaste) si legge per esempio che è "amara più della morte .. la donna, la quale è tutta lacci: una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la sfugge, ma il peccatore ne resta preso (7-26)

Nell' Ecclesiastico è scritto: "dalla donna ha avuto inizio il peccato, per causa sua tutti moriamo ........ Se non cammina al cenno della tua mano, toglila dalla tua presenza" (25, 24-26).

Dagli antichi manoscritti essenici di Qumran si trovano altre istruttive riflessioni:

"la donna ... è costantemente alla ricerca di aberrazioni ... le sue ... fondamenta sono tenebrose e un'abbondanza di colpe è sotto le sue ali ...
E' lei il principio di tutti i sentieri della iniquità ... i sentieri di lei sono sentieri di morte, le sue vie sono strade di peccato, le sue piste sono smarrimenti di iniquità, le sue strade sono infedeltà peccaminose, le sue porte sono porte di morte e dall'ingresso della di lei casa si fa avanti lo Sheol (gli Inferi).

Si uniformano a questa pesante misoginia alcuni Padri della Chiesa, come Clemente d'Alessandria e Tertulliano, ambedue vissuti tra il II ed il III secolo.

Il primo ritiene che per una donna sia "motivo di vergogna il pensiero stesso di chi essa sia." (Paedagogi II, 2).

E il secondo si rivolge alle donne sostenendo che ognuna di loro, "presa coscienza delle propria condizione, ossia di quella femminile", dovrebbe avere un unico desiderio:

"ostentare vesti di lutto, presentandosi come un'Eva afflitta e in penitenza, in modo da riscattare ... il retaggio che le deriva da Eva, vale a dire l'ignominia della prima colpa - e l'odiosità di aver mandato in rovina il genere umano. Tu donna partorisci tra dolori angosciosi, la tua tensione è per il tuo uomo ed egli è il tuo padrone: e non sai di essere Eva? In questo mondo è ancora operante la sentenza divina contro codesto tuo sesso: è necessario che duri anche la condizione di accusata. Sei tu la porta del diavolo, sei tu che hai spezzato il sigillo dell'Albero, sei tu la prima che ha trasgredito la legge divina, sei stata tu a circuire colui che il diavolo non era riuscito a raggirare; tu in maniera tanto facile hai annientato l'uomo, immagine di Dio; per quello che hai meritato, cioè la morte, anche il figlio di Dio ha dovuto morire: e hai ancora in animo di coprire di ornamenti le tue tuniche di pelle?"

Da "Il corpo della dea" - Selene Ballerini _- edizioni Atanor

Selene Ballerini, laureata in Lettere, giornalista, saggista, scrittrice, editor, animatrice dell’Associazione Culturale Akkademia PanSophica e della connessa Compagnia teatrale, partecipe di Progetto Elissa per lo studio delle tradizioni sibilline, sceneggiatrice della pièce Crezia su un caso di Stregoneria del XVI secolo, si occupa di tematiche femminili per contribuire a una riformulazione della coscienza individuale e collettiva.

lunedì 26 gennaio 2009

Diario di scuola

La scuola è la protagonista del libro di Daniele Pennac "Diario di scuola" – edito da Feltrinelli- Scuola – vista da un’angolazione insolita, quella dell’alunno “somaro”

Il libro mescola ricordi autobiografici a riflessioni pedagogiche sulle disfunzioni della scuola, sul ruolo dei genitori e della famiglia, sul ruolo dei media contemporanei.

Pennac riflette criticamente sull'universo "sofferto" del somaro: se uno studente non riesce ad imparare sente un vero dolore: sottolinea pertanto quanto sia necessaria la passione degli insegnanti per il proprio lavoro e per la propria materia per poterla trasmettere a qualcun altro e quanto sia indispensabile, per gli alunni, non aver paura.

Il segreto della pedagogia è far passare la paura. Paura di rispondere alle domande, di sbagliare, di incontrare lo sguardo accusatorio degli adulti.

Afferma Pennac che erano davvero pochi i professori che riuscivano a coinvolgere i propri studenti durante le lezioni, la maggior parte era troppo occupata a "incutere terrore" e abusare del proprio potere invece di insegnare qualcosa.

L'unica salvezza per i "somari" è l'amore di quei pochi professori straordinari che fanno di tutto per far appassionare i ragazzi alle materie che più detestano.

" Compito di un buon insegnante" prosegue Pennac "è attenuare il dolore provocato da questa violenza che è l'insegnamento".

Un buon insegnante va a letto presto e ha tre passioni: la sua materia, i suoi studenti e la trasmissione del sapere. Con una buona dose di umorismo e la giusta capacità di parlare a studenti e insegnanti senza alimentare quello stereotipo degli adulti che addossano la colpa dell'indifferenza giovanile alla società consumistica, Pennac sostiene che i veri responsabili siano i genitori:

"Siamo noi a scegliere per i nostri figli, a metterli davanti alla tv per ore o comprar loro un cellulare. Li trattiamo come clienti. Sono questi gli esempi che diamo loro. Inutile affannarsi a cercare le colpe fuori, quando i veri responsabili siamo proprio noi".

domenica 25 gennaio 2009

Bimba dal volto sereno



Bimba dal volto sereno, che guardi
ogni cosa con enorme stupore,
sebbene si faccia sempre più tardi
tu mi chiedi un regalo d'amore
e sorridi dolcemente: l'impresa
di Alice ti fa stare in attesa.

Io non conosco il tuo volto splendente,
non ho udito il tuo ridere felice
e tu da grande non saprai più niente
di me e della favola di Alice.
Ma per ora rispondo alla tua attesa
e ti racconto la sua nuova impresa.

La mia favola ebbe inizio in un giorno
d'estate, col sole ardente sul mare
e un suono di campane tutte intorno
che accompagnava il mio stanco remare.
Quella gita non potrò dimenticarla,
anche se il tempo dice di scordarla.

Vieni, ascolta. Il tuo volto si fa attento
mentre l'ora sgradita s'avvicina
in cui una voce piena di spavento
dirà: "La bimba è ormai una signorina".
Noi non siamo che fanciulli invecchiati
che la sera vanno a letto arrabbiati.
Fuori la neve è caduta da poco
e c'è la furia di un vento da pazzi,
Qui dentro c'è la luce del fuoco
e una cara nidiata di ragazzi.
Non badare al rumore che faranno
mentre le mie parole ti diranno ...

ti diranno una favola stupenda prima che il tempo passi
ed il ricordo con la sua ombra triste si distenda su quel giorno d'estate.
Se il suo ingordo respiro distruttore
passeràla nostra fiaba intatta resterà.

"Alice nel mondo dello specchio" - Lewis Carroll - SuperBur Classici.

sabato 24 gennaio 2009

"Schegge di una pietra preziosa"

Lo studio dei racconti popolari comincia poco dopo il 1800 e si rivolge quasi esclusivamente alla saga ed alla fiaba.
L’interesse si appunta a lungo sull’origine e il contenuto pagano di fiabe e saghe.

I fondatori della ricerca sul racconto popolare, in particolare sulle fiabe, sono i fratelli Jacob e Wilhelm Grimm.

Essi partono dall’idea che ogni popolo ha una sua anima, la quale si esprime con la massima purezza nella lingua e nella poesia, nelle canzoni e nei racconti.

Nel corso del tempo, i popoli hanno perduto in parte la propria lingua e la propria poesia.

Questo fenomeno si applica soprattutto ai ceti più elevati.

La cultura originaria può essere ritrovata, nella sua forma più pura, presso gli stati sociali inferiori.

In questa ottica le fiabe sono resti dell’antica cultura unitaria del popolo. Nel 1812 e nel 1815 i fratelli Grimm pubblicarono due volumi per un totale di 156 fiabe, che formano il punto di partenza dello studio dei racconti popolari.

I Grimm definiscono le loro fiabe “schegge di una pietra preziosa”, cioè resti di racconti pagani, germanici, mitologici

Come elementi pagani delle fiabe, i Grimm considerano in primo luogo i motivi che compaiono anche negli antichi testi mitologici; secondariamente, tutto ciò che non può essere ricondotto alla fede cristiana: metamorfosi, magia, alberi e animali parlanti, ecc…

Molti furono gli studiosi del racconto parlato, da Freud a Jung, a Steiner....

Rudolf Steiner considera le fiabe come un mezzo per ridestare alla vita l’anima, che – nel mondo moderno – riesce ad esprimersi con sempre maggiore difficoltà.

Dentro le fiabe

Proseguo le considerazioni sui racconti popolari e sulle fiabe iniziate ieri.

Un ‘altra caratteristica della fiaba è che lo svolgimento della vicenda conduce a risultati che contrastano con la realtà quotidiana del narratore.

La fiaba mette il mondo a testa in giù ed è inguaribilmente ottimista: il più giovane, il più sciocco, il più debole vince sempre.

Il pastorello sposa la principessa, l’orfanella incontra il suo principe, il re malvagio e la matrigna cattiva non sfuggono alla giusta punizione.

Le figure sono soltanto rappresentanti di ciò che devono rappresentare; in molti casi non hanno neppure un nome. Sono semplicemente il re, la matrigna, il drago, il gigante, la sorella, il soldato, il pastorello.

Se l’eroe o l’eroina hanno un nome, nella maggior parte è generico, oppure i personaggi devono accontentarsi di nomi o soprannomi semplici, modellati sulle circostanze, come Cenerentola, Rosaspina o Pollicino.

Un gruppo piccolo, ma molto amato di fiabe fantastiche non ha per protagonisti i più consueti adolescenti, ma bambini più piccoli: sono le fiabe di Cappuccetto Rosso, Pollicino e Hansel e Gretel, al cui centro sta la fuga dell’eroe o dell’eroina dalle fauci di una creatura soprannaturale (strega, orco) o di un animale mangiatore di uomini.

venerdì 23 gennaio 2009

Racconti popolari e fiabe

Sembra difficile, in questa meravigliosa, soleggiata mattina di gennaio, pensare di raccontare una fiaba.
Eppure, a sera, quando i bimbi vanno a dormire, cosa può esserci di più bello che stare un po' assieme a loro, raccontando o leggendo una fiaba?

Questa è una premessa che dovevo fare: chi mi conosce sa che sono contraria alla televisione e favorevole al contatto che si forma fra chi narra e chi ascolta.

Tornando al racconto popolare, si intende un racconto che circola nella tradizione orale, anche se in molti casi possa avere una parte anche la tradizione scritta.

In questo contesto, il termine "popolare" si riferiva in passato soprattutto al popolo semplice e illetterato, particolarmente agli abitanti delle campagne che non sapevano leggere e scrivere e si affidavano, pertanto, interamente all'oralità.

Tuttavia i racconti popolari compaiono anche presso altri gruppi sociali, alfabetizzati e più sviluppati.

Quindi quello del racconto popolare è un concetto ampio, nel quale rientrano tutti i racconti trasmessi con continuità per periodi più o meno lunghi, indipendentemente dal loro contenuto, dall'epoca e dal luogo in cui vengono narrati e da chi.

All'interno di questo concetto più ampio si distinguono diversi generi narrativi, come la fiaba, la saga, la leggenda, l'aneddoto, il racconto edificante ....

Nell'atto del narrare, la parte principale spetta sempre all'intenzione del narratore: se vuole fare appello al senso dell'umorismo dei suoi ascoltatori, nasce una storia comica o una storiella; se vuole raccontare fatti e fenomeni non comuni, soprannaturali, come se fossero accaduti davvero, ne nasce una saga.

Il genere narrativo più conosciuto è senza dubbio quello della fiaba.

La fiaba è narrata come un racconto popolare (anche) oralmente ed è anonima, ossia non se ne conosce il primo narratore - l'autore - ma soltanto l'ultimo e, forse la sua fonte.
Si svolge nel passato, in un'epoca solitamente indefinita ("c'era una volta"), in uno spazio non definito esattamente, in un mondo preindustriale, feudale, popolato da re, principi e principesse.

La fiaba è un racconto di meraviglie, nel senso che l'elemento fantastico e soprannaturale vi ha una parte importante, pur non essendo vissuto come straordinario: al contrario, infatti, il meraviglioso è presentato come qualcosa di normale e scontato.

Nella fiaba, le due dimensioni - il naturale, terreno, e il soprannaturale, magico-mitico, non sono - come nella saga - distinte e problematiche, ma si intersecano senza difficoltà.

Uomini, animali, creature fantastiche, l'incantato e l'incantatore: nella fiaba, tutti condividono il medesimo universo.

giovedì 22 gennaio 2009

L'Usignolo e l'Amore


Un giorno conobbi un uomo: piangeva come una fontana. "Perché piangi?" gli chiesi.

“La donna che amo ha detto che ballerà con me
solo se le porterò delle rose rosse,
ma in tutto il giardino non c’è una sola rosa rossa!".

Anche l’usignolo lo ascoltava commosso.
"Il principe dà un ballo domani sera", singhiozzava l'uomo.
"Io e lei siamo stati invitati.
Se le porterò una rosa rossa ballerà con me fino all’alba.
Ma non v'è rosa rossa nel mio giardino,
e così me ne starò tutto solo
e lei mi passerà davanti senza degnarmi di uno sguardo.
Non si curerà di me e il mio cuore si spezzerà".

"Ecco uno che sa veramente amare", disse l’usignolo.
"Quello che io canto, egli lo soffre:
quello che per me e gioia, per lui è dolore.
L’amore è una cosa meravigliosa:
è più prezioso di smeraldi e diamanti.
Non si può comprare con perle e pietre preziose.
Non è venduto al mercato
non ci sono mercanti o bilance per l’amore".

" Ballerà con tutti, ma non con me.
Perché non ho da offrire una rosa rossa".
L'uomo si buttò nell’erba e seppellì il viso nelle mani.

"Perché piange?",
chiese una lucertolina marrone,
passandogli accanto di corsa, con la coda in aria.

"Già, perché piange? ",
chiese una farfalla che svolazzava dietro a un raggio di sole.

"Sì, perché?",
sussurrò una primula alla sua vicina con una voce dolce, sommessa.

"Piange per una rosa rossa", rispose l’usignolo.

"Per una rosa rossa?", esclamarono; "che ridicolaggine!" .

La lucertolina, che era un po’ cinica, sghignazzò senza ritegno.

Ma l’usignolo capiva il segreto del dolore dell'uomo
e se ne stette silenzioso,
sulla quercia, a riflettere sul mistero del dolore.

D’un tratto spalancò le ali brune e si librò in aria.

Attraversò il boschetto come un’ombra,
e come un’ombra veleggiò attraverso il giardino.
Al centro del prato c’era un bel rosaio,
e quando lo vide l’usignolo si posò su uno dei suoi rami.
"Dammi una rosa rossa", implorò,
"e ti canterò la più dolce delle mie canzoni".Il rosaio scosse i rami.

"Le mie rose sono bianche", rispose;
"bianche come la spuma del mare,
e più bianche della neve sui monti.
Ma va’ da mio fratello, che cresce intorno alla vecchia meridiana,
e forse lui ti darà quello che cerchi".

Così l’usignolo volò fino al rosaio che cresceva intorno alla vecchia meridiana.

"Dammi una rosa rossa", implorò,
"e ti canterò la più dolce delle mie canzoni ".

Ma il rosaio scosse i rami.
"Le mie rose sono gialle", rispose;
"gialle come l’asfodelo che fiorisce nei campi, gialle come grano.
Ma va’ da mio fratello che fiorisce sotto la finestra dell'uomo,
e forse lui ti darà quello che cerchi ".
Così l’usignolo volò al rosaio che cresceva sotto la finestra dell'uomo.

"Dammi una rosa rossa", esclamò,
"e ti canterò la più dolce delle mie canzoni ".

Ma il rosaio scosse i rami.
"Le mie rose sono rosse", rispose, "più rosse del corallo.
Ma l’inverno mi ha gelato le vene,
la neve mi ha distrutto i germogli
e la tempesta mi ha spezzato i rami:
non avrò nemmeno una rosa".

"Una rosa rossa è tutto quello che voglio!", gridò l’usignolo.
"Solo una rosa rossa! Non esiste un modo per procurarmela?".

"Una maniera c’è", rispose il rosaio.
"Ma è così terribile che non ho il coraggio di dirtela".
"Dimmela", disse l’usignolo, "io non ho paura".

"Se vuoi una rosa rossa", disse il rosaio,
devi tingerla con il tuo sangue.
Devi cantare per me col petto contro una delle mie spine.
Tutta la notte devi cantare per me,
e la spina deve trafiggerti il cuore,
e il tuo sangue deve scorrere nelle mie vene e diventare mio"

"La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa",
disse l’usignolo.
"La vita è bella e cara tutti. Eppure l’amore è più grande della vita.
E che cos’è mai il cuore di un uccello
in confronto al cuore di un uomo?".

Si librò in volo e ritornò dall'uomo, che continuava a disperarsi.

"Sii felice", gli gridò l’usignolo, "sii felice.
Avrai la tua rosa rossa. La tingerò io con il sangue del mio cuore.
In cambio ti chiedo solo di essere sincero nel tuo amore".

L'uomo alzò il capo,
ma naturalmente non capiva nulla di quello che l’usignolo diceva.
Ma la quercia capì e si rattristò,
perché amava molto l’usignolo
che aveva costruito il proprio nido in mezzo ai suoi rami.

"Cantami un’ultima canzone", sussurrò,
"sarò tanto sola quando tu non ci sarai più ".
L’usignolo cantò per la quercia
e la sua voce sembrava acqua zampillante da una fonte d’argento.

L'uomo se ne andò, sbuffando:

"L’usignolo ha una bella voce, ma certamente nessun sentimento.
Pensa solo al canto, alle belle note.
Non gliene importa niente degli altri.
Sono tutti così gli artisti!".
Andò nella sua stanza, si distese sul letto e,
pensando alla sua amata, si addormentò.

Quando in cielo si accese la luna,
l’usignolo volò al roseto e mise il petto contro una spina.
Tutta la notte cantò, col petto contro la spina.
Anche la fredda luna di cristallo si chinò e ascoltò.

Tutta la notte cantò, e la spina gli penetrò sempre più profondamente nel petto,
mentre il sangue della vita scorreva via.

Sbocciò una rosa meravigliosa,
rossa come il sole d’oriente, rossa più di un rubino.
Ma la voce dell’usignolo si affievolì.
Le sue piccole ali cominciarono a tremare e un velo di dolore gli annebbiò gli occhi.

La sua voce meravigliosa si spense in un’ultima esplosione di trilli,
mentre la rosa meravigliosa
spalancava i petali alla fredda aria del mattino.

"Guarda, guarda!", gridò il rosaio.
"La rosa è finita ora".

Ma l’usignolo non rispose, perché giaceva morto nell’erba alta.

A mezzogiorno, l'uomo aprì la finestra e guardò fuori.

"Ehi, ma che fortuna incredibile!", esclamò.

"Qui c’è una rosa rossa!

Non ho mai visto una rosa così in tutta la vita.
Così bella che di sicuro deve avere un lungo nome latino".
Si spenzolò dalla finestra e la colse.

Poi corse alla casa della donna dei suoi sogni con la rosa in mano.
"Hai detto che avresti ballato con me
se ti avessi portato una rosa rossa",
esclamò l'uomo.
"Ecco la rosa più rossa del mondo.
La porterai stasera sul cuore,
e quando balleremo insieme ti dirò quanto ti voglio bene".

Ma la donna si accigliò.

"Non mi serve più. Non si intona con il mio vestito.

E poi il nipote del banchiere mi ha mandato dei gioielli veri,
e tutti sanno che i gioielli costano molto più dei fiori ".

"Sei solo un’ingrata!", disse rabbioso l'uomo.
E gettò la rosa nella strada.
La rosa rossa finì in una pozzanghera e la ruota di un carro la schiacciò.

"L’amore non esiste", concluse l'uomo.
E tornò a casa.

(Oscar Wilde)

mercoledì 21 gennaio 2009

Alice e il Tempo



Lella Costa presentò, qualche anno fa, "Alice, una meraviglia di paese" di cui protagonista è un'inedita Alice, di netto sapore carroliano ma ben più mondana.

Lella Costa ri-racconta la storia di questa fanciulla immersa in un mondo fiabesco, che diventa metafora della follia contemporanea.

E' proprio vero che Alice può essere definito un nome-valigia. I rimandi sono molteplici. E' probabile che il primo vada al classico di Lewis Carroll, "Alice nel paese delle meraviglie".

Ma è anche l'Alice nelle città" di Wenders o quella "che non abita più qui" di Scorsese.

E' la radio che da Bologna negli anni settanta raccontava in diretta il mondo che esplodeva.

Potrebbe anche essere quella che guarda i gatti e viaggia nelle città.

E' il nome che oggi si ritrovano addosso tante giovani donne che sono nate quando i loro genitori pensavano che il mondo si potesse cambiare, o almeno colorare in un altro modo.

Alice è comunque simbolo di tante cose.

E' ciò che sta per qualcos'altro.
E' ciò che permette di arrivare in un punto estremamente lontano da quello di partenza.
E' il nonsense, il surreale come sublime piacere del paradosso, ma anche come grimaldello per esplorare e raccontare alcuni luoghi dell'indicibile contemporaneo: per esempio il carcere, per esempio la sofferenza psichica.

Si racconta, inoltre, la storia di Federico Nessuno, che ha 7 anni e 6 mesi come Alice, quando i nazisti gli sterminano la famiglia e lui diventa cieco.Sette anni dopo riconoscerà dalla voce i suoi torturatori.

Per Alice, invece, il tempo è circolare, non c'è inizio, non c'è fine, è il senso di onnipotenza della nostra generazione.

Il monologo proposto da Lella Costa-Alice alterna toni lievi a seri commenti che fanno riflettere.

L'infanzia, con il suo carico di ingiustizie, e il tempo sono dunque i temi forti...

C'è una frase bellissima che una regina dice ad Alice:
'Avresti dovuto vedere il tempo che c'era ai miei tempi'.

Oppure un'altra regina trascina Alice in una corsa forsennata, ma alla fine sono sempre nello stesso posto!"

In particolare, del tempo si analizza la sua evoluzione. Gli effetti del suo scorrere e le contrazioni che subisce o che, magari, attua.

Sembra quasi che l'intento sia quello di fermarlo. Poterlo alterare per riuscire a riacciuffare quel tocco di curiosità e coraggio che Alice stessa dimostra di possedere nelle sue avventure sia nel "Paese delle meraviglie" che "Attraverso lo specchio".

martedì 20 gennaio 2009

Il giorno prima della felicità

".... Prima di questo i racconti di Don Gaetano, la storia dell'ebreo nascosto in cantina e di come le persone possono tirare fuori il meglio e il peggio di sé in guerra, della rivolta di un popolo che ad un certo punto, senza una ragione apparente, decide: "Mo' basta"

Cominciavano i pensieri di una testa sola.
Le persone quando diventano popolo fanno impressione. Così arriva una mattina, una domenica di fine settembre, finalmente piove e sento in bocca a tutti la stessa parola, sputata dallo stesso pensiero. Mo' basta. Era vento, non veniva dal mare, ma da dentro la città, mo' basta, mo' basta. Se chiudevo le orecchie lo sentivo più forte. La città cacciava la testa fuori dal sacco".

I giorni della liberazione di Napoli sono raccontati attraverso gli occhi del popolo, come fosse un'unica voce.
Lo sguardo del ragazzo, al racconto dell'estasi collettiva di quei giorni, della felicità provata tanto intensamente quanto più grande era stata la paura di perderla, al racconto di tutti che si abbracciano per le strade, va alla finestra del terzo piano:

"Ancora non era arrivato per me il giorno prima della felicità. Lo volevo sapere. Non volevo che all'improvviso capitava e non me ne accorgevo il giorno prima. Loro sapevano che doveva succedere il giorno dopo".
Il suo giorno prima della felicità per lui sarà quando farà i conti con il fantasma di quel primo amore ...

Erri De Luca - "Il giorno prima della felicità" - ed. Feltrinelli

lunedì 19 gennaio 2009

Nell'aprile 1941

Nell'aprile 1941, quando Virginia Woolf uscì da Monk's House, decisa a intraprendere la coraggiosa camminata solitaria che la condusse alla morte nel fiume Ouse, lasciò un biglietto d'addio a due sole persone.
Il primo era indirizzato al marito, Leonard Woolf, suo grande sostegno e compagno di vita, l'altro alla donna che aveva condiviso le complicazioni della sua esistenza dalla prima infanzia fino all'ultimo giorno, un lasso di tempo di 59 anni.

Scrivendo le ultime parole alla sorella, Vanessa Bell, Virginia concludeva:

" Se potessi ti direi che cosa avete significato per me tu e i bambini. Penso che tu lo sappia".

Le sorelle Stephen (Virginia e Vanessa) ebbero un'infanzia molto diversa rispetto a Stella.

Benché entrambe costrette dalle ferree regole della società vittoriana a presenziare al tè e a intrattenere il continuo giro di visitatori di Hyde Park Gate 22, avevano anche in fondo alla strada le delizie dei Kensington Gardens, con il Round Pond e la Serpentine dove far navigare le barchette.

Da bambine, Virginia e Vanessa amavano sdraiarsi sotto gli alberi del parco a leggere e a mangiare cioccolata.

Quegli anni, prima dei lutti e delle crisi, furono un periodo magico di sana vita infantile, con le estati a Talland House e gli inverni rintanati a Kensington nelle camere dei bambini davanti ad un bel fuoco acceso, anche se fin da piccola Virginia era già tanto insicura da temere che Vanessa si addormentasse prima di lei, e per impedirlo continuava a chiamarla ad alta voce.

Già allora si sentiva inferiore a quella assennata e capace sorella maggiore, e in una prima versione di "Immagini del passato" "ricorderà quanto imperfetta" si sentisse in confronto a Vanessa, "quanto vana, egoista ed irritabile".

A Charleston, si poteva spesso trovare Vanessa seduta al cavalletto nello studio in soffitta, oppure nella stanza sul giardino, a cucire o dormire … Era serena, misurata, terrestre ma controllata e Virginia la paragonava ad una ciotola di melassa che sobbolle fino all'orlo senza mai traboccare ….

Da " Virginia Woolf e le sue amiche" di Vanessa Curtis – La Tartaruga Edizioni

Le maree di Virginia


L’Ouse scorreva vicino alla sua casa.
Deve aver percorso in pochi minuti, l’ultima strada – nelle tasche tanti sassi pesanti.
E poi, una volta sulla riva, ha continuato a camminare, finché è scomparsa, sotto l’acqua, nel profondo.

Era il 28 marzo del 1941: Virginia Woolf era finalmente riuscita a scappare dalle voci che la infestavano, dalla sua pena costante e da una vita troppo stanca.

Immaginiamo una famiglia: la nostra, o lo stereotipo – non necessariamente edulcorato e pubblicitario – attraverso il quale ricamiamo nella nostra testa l’immagine di un nucleo di persone coeso, affettuoso, sicuro (un porto franco).

Poi immaginiamo tutte le infinite varianti di questo modello: le intrusioni, i fallimenti, gli investimenti emotivi traditi, il caos.

Ecco, la storia di Virginia Woolf rientra nella seconda ipotesi: un’esistenza spuntata su un terreno senza solidità.


La bella Adeline Virginia Stephen nasce a Londra nel 1882, in una casa già stravolta da non pochi avvenimenti: i suoi genitori, sir Leslie e Julia, sono entrambi vedovi, entrambi già genitori.

Dai precedenti matrimoni, la donna ha avuto tre figli (George, Stella e Gerald Duckworth); il signor Stephen ha invece un’unica bambina, Laura, con un grave ritardo mentale che in seguito determinerà la sua istituzionalizzazione fino alla morte.

Ma Adeline non è la primogenita della matura coppia: ci sono già Vanessa (1879), Thoby (1880) e poi verrà Adrian (1783).

E’ una situazione complessa, soprattutto per quei tempi, in cui il concetto di “famiglia allargata” non si è certo ancora imposto – ma è anche una situazione stimolante.

Perchè il primo suocero di sir Leslie non è altri che il celebre letterato William Thackeray e in generale la fama di Stephen come editore critico biografo e intellettuale attira nel suo salotto i grandi nomi dell’epoca: la sua seconda consorte ha per zia la notevole fotografa Julia Margaret Cameron e poi vengono spesso a visitarli Henry James e George Eliot, solo per dirne un paio.

Non sorprende dunque che i piccoli crescano con notevoli inclinazioni per gli interessi culturali, per l’arte – la stessa mamma Julia, con la sua bellezza, è stata una modella per i pittori preraffaelliti.



L’infanzia ha poi momenti particolarmente piacevoli nella casa estiva, in Cornovaglia: è che poi sono iniziati i lutti.

Quando Virginia è appena tredicenne sua madre muore e lo stesso accade per la sua cara sorellastra Stella, un paio d’anni dopo – una sorellastra amorevole che tentava di sostituire il genitore mancante.


E’ qui che si colloca il primo “collasso di nervi” di Virginia, le prime esperienze con un fortissimo stato depressivo che andrà incrementandosi dopo la morte del padre, nel 1904: per un breve periodo la giovane viene anche ricoverata.

Al di là di quanto appariva, erano anche altri i motivi che causavano queste frequenti crisi: gli abusi sessuali subiti dai fratellastri George e Gerald, sia da lei che dall’adorata sorella Vanessa – entrambe orfane.

Decisero dunque, col fratello Adrian, di trasferirsi assieme in Bloomsbury.

E fu lì che si creò la compagnia di intellettuali noti come “Il gruppo Bloomsbury”, di cui facevano parte Lytton Stachey, Clive Belle e Leonard Woolf, che sposò Virginia nel 1912, pur lasciando i biografi perplessi circa alcuni aspetti della loro vita matrimoniale.

La coppia, ben assortita mentalmente ed affettivamente, fondò la Hogarth Press, casa editrice che avrebbe pubblicato tanta parte dei lavori della scrittrice – ma la loro collaborazione era eterogenea e costante: era Leonard, con la sua pazienza e la sua dedizione, a sostenerla negli attimi di sconforto e malattia. Era Leonard a spronarla nella sua attività artistica, a correggere e mettere assieme le parole di lei, talvolta.


Un uomo, un marito, una presenza decisiva nella vita della Woolf.

Ma non era l’unica persona importante della sua vita: aveva un rapporto quasi simbiotico con la sorella Vanessa e – soprattutto – ebbe una lunga storia d’amore con la poetessa Vita Sackville West (è ormai dato per assordato che le preferenze sessuali di Virginia fossero rivolte alle donne), il che non contrastava col modo di vedere il mondo del loro “gruppo”, in cui la monogamia veniva, se non derisa, sconsigliata.


Eppure, per tutta la sua vita, malgrado questi incontri densi, malgrado le numerose opere prodotte, non ci fu per lei un periodo di costante equilibrio psicologico.

I suoi gravi problemi nella sfera dell’umore, il “sentire voci”, il senso di estraniazione e angoscia la seguivano per lunghi mesi, lasciandola spossata e obbligando il medico a raccomandarle un assoluto ed estenuante riposo.


Il disturbo bipolare, volendo sintetizzare, è caratterizzato dall’alternarsi di fasi maniacali a fasi depressive – queste ultime tendono ad essere assai più durature.


E’ questa una classificazione semplicistica, volendo, perché di fatto questa patologia, per essere precisi, può differenziarsi come disturbo bipolare I, disturbo bipolare II e ciclotimia, ma che dà un quadro della situazione: un ondeggiare devastante tra profondi stati di tristezza, disperazione, vuoto e angoscia e un’espansione dell’umore che sfocia nell’irritabilità, in una grandiosità eccessiva, in un’eccitazione che può diventare pericolosa.

Nel caso della Woolf, l’ipotesi più probabile è che si trattasse di un disturbo bipolare II, in cui prevale la componente di eposi di di depressione maggiore e la presenza di almeno un episodio ipomaniacale (più sfumato rispetto al maniacale).

E’ una malattia altamente invalidante che, nella Woolf (come del resto capita) ha anche sintomi psicotici (allucinazioni uditive) e che spesso porta al suicidio, con un rischio trenta volte maggiore di quello della popolazione generale.


E’ ormai assodata la presenza di una componente genetica nella genesi del disturbo, ma è comunque – come per la gran parte del disagio mentale – una realtà multifattoriale, facile da comprendere se si considera il vissuto di Virginia.

La prima crisi risale all’adolescenza e ancor più alla prima vita adulta, come usualmente accade.

Ma qui le ragioni si moltiplicano: Virginia perde in un decennio le tre figure di riferimento e investimento affettivo – madre, sorellastra, padre.

Appena prima aveva visto partire, per sempre, Laura, la figlia di primo letto del padre, con una grave disabilità mentale. Le sue urla avevano spaventato Virginia bambina, e questa sfortunata ragazzina – quasi nascosta ma amata dall’addolorato genitore, è come il simbolo di una coscienza nascosta, di un monito, di una paura: che ci fosse anche in lei, in loro altri, qualcosa che non andava?

Rimasta con l’adorata Vanessa, che però è pressoché una coetanea, le due hanno da affrontare quanto mai era stato ammesso a viso aperto, almeno fino ad allora (anche se troverà poi sfogo negli scritti del futuro): le molestie sessuali da entrambe subite, da parte dei fratellastri maggiori (questo salvifico divedere tra “noi Stephen” e “Loro Duckworth”).

Orfane, con i rimanenti membri della famiglia che sono causa di violenza e disintegrazione del sè, l’emancipazione delle Stephen a Bloosmbury appare quasi necessaria.

E qui l’incontro prima con Leonard e dopo con Vita: il primo è il padre, la sicurezza, il conforto, l’appoggio incondizionato, il contenitore ed il contenimento di un ego fragile, fluttuante. E’ il principio organizzatore che guarisce, unisce e corregge, non solo pagine.

E Vita – l’innamoramento, volendo anche azzardare, il narcisismo: una dedizione che riversa su di una donna che non è sè, perché per sè Virginia ha spesso rimostranze e rancori.

Il senso di colpa assurdo ma tipico delle vittime di abuso sessuale, il suo sentirsi inadeguata, difficile, sbagliata – tutti i suoi cari muoiono, e poi quei due, che le hanno fatte quelle cose di cui forse anche lei (così verosimilmente pensa) ha qualche responsabilità.

Senza voler indagare l’ovvia relazione tra la frigidità sessuale verso il marito e gli abusi (non sembra si sia mai consumato le nozze), è indubbia la capacità di Virginia di creare a livello affettivo dell relazioni stabili e profonde: con Vanessa, con Vita, ma anche con Leonard, cui era affezionatissima e legatissima.

Solo con se stessa, non riusciva a intendersi.

E attendeva con terrore ogni volta più forte, il ritorno di quelle voci, di quel senso di morte e dissoluzione che quasi desiderava, stesa nel suo letto per settimane o anche più.

E poi c’era la scrittura – il contenitore, dove mettersi ed essere “corretta”, sistemata, coltivata.

Da “La crociera”, nel 1913, fino al postumo “Diario di una scrittrice” del 1953, malgrado il disagio e la sofferenza, Virginia ha avuto il tempo di proiettarsi e raccontarsi raccontando, in molti celebri opere: per esempio “La signora Dalloway”, in cui le voci che Virginia sente nella testa sono invece qui monologo interiore della protagonista (questo parlarsi dentro, così tipico di Virginia), in un flusso di ricordi e associazioni che diviene quasi un percorso psicoterapeutico di disvelazione.

E intanto si compone anche un meraviglioso affresco dell’Inghilterra di allora, del ruolo della donna, delle costrizioni, della falsità dell’apparire della protagonista, apparentemente ben inserita nell’alta società. E c’è anche il rapporto ambiguo con un’amica libertina e quasi scandalosa.

In “Orlando” questo tema si fa ancora più forte, visto che è praticamente un inno ai sentimenti per Vita: la protagonista è un’androgina creatura che attraversa i secoli, come donna e come uomo (il figlio di Vita arrivò a definire “Orlando” “La più lunga lettera d’amore della storia”).

E altro magnifico lavoro è “Le onde”, in cui sei amici si alternano in un monologo, in cui si intrecciano ricordi e desideri, come onde che si ritraggono, come le onde di rinascita e angoscia che ciclicamente percuotevano Virginia stessa.

Nelle ultime parole al marito, prima di suicidarsi, gli esprimeva tutta la sua gratitudine, per averlo avuto accanto. Il loro, sesso o no, era stato un matrimonio notevole.

La gratitudine che mostra, il senso di colpa per averlo reso compartecipe del suo dolore, un dolore antico che è stato guarito solo dalle amorevoli cure di lui e dalla scrittura in cui si è riversata lei stessa, per riaversi pulita con contorni precisi – lei, così abile nei ritratti psicologici.

La sua infanzia è stata segnata dalla violenza, vergognosa e nascosta; la giovinezza è stata tormentata da lutti e solitudine. E così l’età adulta si è sviluppata creativamente fertile ed emotivamente devastata.

Ma in tutto il fragore delle sue voci interiori, in tutto lo smarrimento della sua orribile depressione, oggi Virginia ci parla con una modernità e una capacità analitica quasi imbarazzanti: conosceva l’animo umano e ce lo ha descritto, nei momenti in cui la tristezza l’abbandonava – come onde – e ci veniva lasciata l’autrice.

Un movimento naturale, un ciclo: la pena e il ritorno.

Kotnik D., “Virginia Woolf. La Minerva di Bloomsbury”, Rusconi 1991;
it.wikipedia.org/wiki/Virginia_Woolfhttp://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/woolf.htm
www.online-literature.com/virginia_woolf/DSM IV-tr
www.ipsico.org/disturbo_bipolare.htm
www.psico-terapia.it/menus/depressione/disturbo-bipolare.php
www.stopmobbing.org/article.php3?id_article=14 GHISI MIGLIARI, A. (2007).
Le Maree di Virginia La Woolf e il Disturbo Bipolare. Firenze: PsicoLAB. Visionato il 23/11/2007 su psicolab.net - articolo di    Alessia Ghisi Migliari

domenica 18 gennaio 2009

Le emozioni degli animali

Se potessero parlare ci direbbero "Mi fai male", "Sono triste", "Sono felice di vederti". Etologi e neuro-biologi ne sono sempre più convinti: per quanto riguarda le emozioni l'unica cosa che differenzia animali e uomini è il modo in cui si esprimono. Agli animali mancano gli organi adatti per articolare il linguaggio e quindi per comunicare quel che provano, ma poiché possiedono vista, tatto, attività cerebrale e una buona porzione del Dna simili o, in alcuni casi, quasi uguali ai nostri, a scimmie, cani, corvi, polpi e perfino tartarughe e pesci è giusto attribuire la capacità di amare, soffrire, gioire.

Il dibattito è annoso, ma si è riacceso lo scorso 21 agosto, quando un gorilla di tre mesi, affetto da un difetto cardiaco congenito, è morto nello zoo di Münster, in Germania.
(articolo di Cristina Nadotti – da La Repubblica.it dell'agosto scorso)

Davanti ai visitatori commossi fino alle lacrime, la mamma di Claudio ha cullato e stretto al seno il cadavere per giorni, cercando disperatamente di rianimarlo.

Il comportamento della gorilla Gana è stato commentato sui giornali e molti lettori hanno mandato le loro condoglianze all'animale.

Di fronte a tanta empatia alcuni scienziati hanno ribadito che è un errore proiettare sugli animali sentimenti che sono solo umani. La risposta di zoologi, etologi e neurobiologi, e soprattutto dell'ultima branca dell'etologia, la neuroetologia, è stata unanime: che gli animali provino emozioni è sotto gli occhi di tutti, ma è ancora difficile provarlo scientificamente.

La valutazione scientifica delle emozioni, argomentano i sostenitori dell'uguaglianza tra uomini e animali, è molto difficile anche per gli esseri umani, quindi perché stupirsi se non si riesce a stabilire quanto dolore prova un cane sottoposto a un intervento chirurgico, cosa sente un elefante quando riconosce il vecchio compagno di zoo, o quanto è depresso un maialino che viene allontanato prematuramente dalla madre.

A dirci che i mammiferi e gli uccelli possono sentire le emozioni come noi è il loro cervello, sostengono i neuroetologi, che possiede come il nostro il sistema limbico. Quest'area contiene un insieme di strutture cerebrali che sovrintendono a varie funzioni quali le emozioni, il comportamento e la memoria a lungo termine.

Chi ha un animale da compagnia obietta che non ha bisogno di conoscere la struttura cerebrale per definire vergogna quella che osserva nel suo gatto, quando l'animale non riesce ad agguantare una preda e, caduto rovinosamente, si lecca distrattamente una zampa per far finta di niente.

Lo psicologo prestato all'etologia Jeffrey Moussaief Masson ha scritto tomi riportando osservazioni ed esperimenti sulle emozioni animali, fino ad affermare che un coniglio è capace di mostrare riconoscenza al gatto che lo ha salvato da un'aggressione.

Le taccole intelligenti di Lorenz sono un caposaldo nella storia dell'etologia, ma ultimamente gli studiosi hanno accertato che i corvi sono in grado di divertirsi e che percepiscono la tristezza umana manifestando solidarietà. Le emozioni non sarebbero appannaggio solo di mammiferi e uccelli: l'intelligenza dei polpi è accertata, in più questi molluschi cambiano colore non solo per mimetizzarsi ma, secondo gli scienziati, per esprimere sentimenti quali la rabbia e la gioia.

Perfino i pesci rossi e le tartarughe sarebbero in grado di provare emozioni, come mostrano le loro differenti personalità e capacità di adattamento alle situazioni. Se c'è tanta resistenza ad accettare le capacità emotive degli animali dipende dal modo in cui continuiamo a servirci di loro.

Ammettere che soffrono quanto noi significa smettere di ucciderli, maltrattarli, rinchiuderli, smettere, in sostanza, di considerarli inferiori a noi.

venerdì 16 gennaio 2009

Rovistando dentro un cassetto ...


Già da tempo sai che non vuoi più fare certe cose
perché vanno contro la tua interiorità.

Concludi un compromesso malsano;
ti vendi per un po' di quiete forse,per un po' di calore:
ma così facendo perdi te stesso.

Se perdi te stesso,
perdi la cosa più preziosa che tu possegga.
Divieni così un essere senza nucleo:
devi conoscerti in modo consapevole,
per imparare ad amarti.
Possiamo amare solo ciò che conosciamo
e conosciamo solo ciò che siamo disposti ad amare.

L'indifferenza,
anche verso noi stessi,
ci rende ciechi.
Conosci te stesso,
impara ad amarti.

(Ulrich Schaffer)

giovedì 15 gennaio 2009

Gelo a Mezzanotte


Perciò ogni stagione sarà dolce per te, sia che l'estate rivesta tutta la terra di verde,
o che il pettirosso si posi e canti tra i fiocchi di neve sul ramo spoglio del melo molle di muschio,
mentre il vicino tetto di paglia pel disgelo fumiga al sole,
sia che sgrondino gocciole udite soltanto nella tregua della bufera o che vorrà
il segreto intento del gelo sospenderle in silenti ghiacciuoli, quietamente scintillanti alla quiete luna.

(Samuel T. Coleridge)

Citazione

"L'Occidente è una nave che sta colando a picco, la cui falla è ignorata da tutti.

Ma tutti si danno molto da fare per rendere il viaggio più confortevole."

(Emanuele Severino)

mercoledì 14 gennaio 2009

Via libera agli hacker-sbirri

L'Unione Europea ha autorizzato le forze di polizia a compiere perquisizioni a distanza sui PC dei cittadini.

Il Consiglio dei Ministri Europeo ha dato l'assenso e subito Inghilterra e Germania si sono mosse per adeguarsi con gioia al nuovo corso: nell'Unione Europea è ora possibile l'hacking di Stato.


Le forze di polizia degli Stati membri non hanno più bisogno di un mandato e di essere in possesso di prove per perquisire da remoto i computer dei cittadini: ora hanno ufficialmente il permesso di avviare una "sorveglianza intrusiva della proprietà privata" in maniera del tutto autonoma e anonima.

I gruppi in difesa dei diritti umani, Liberty in testa, stanno insorgendo.


Shami Chakrabarti, membro di Liberty, sostiene che "Non è diverso dall'irrompere a casa di qualcuno, analizzare i suoi documenti e sequestrare l'hard disk". Solo che in questo modo il sospettato (se ancora così lo si può definire) non ne ha nemmeno coscienza.

Ovviamente, intromettersi nel computer di qualcuno è un'attività che richiede la compromissione del sistema che opera su quel determinato PC: assisteremo forse all'invio di mail che contengono virus da parte delle forza dell'ordine? E i produttori di antivirus e software per la sicurezza come si porranno in questa situazione?

Nonostante il Ministero dell'Interno inglese si sia subito attivato per sminuire la portata di questo provvedimento ma senza negare le conseguenze paventate, non solo la privacy dei cittadini viene messa a rischio (qualcuno potrebbe anche dire "Ma tanto io non ho nulla da nascondere") ma la sicurezza stessa dei loro computer.

Senza contare, poi, le sempre presenti possibilità di abuso di un potere esercitabile senza bisogno dell'autorizzazione di alcuno.

(Da Criticamente)

martedì 13 gennaio 2009

Le lacrime di Nietzsche

A chi è appassionato di psicanalisi, storia della psicoanalisi, ecc.. ecco questo libro, la cui recensione è stata scritta da Elisa Boncini su Vertici on line.

Breurer è in attesa di una donna, Lou Salomè, e si interroga su chi sia e su che cosa desideri da lui.
“Dottor Breuer, devo vedervi per una questione di grande urgenza. Il futuro della filosofia tedesca è a repentaglio. Vi prego di volervi incontrare con me domani mattina alle nove al Caffè Sorrento. Lou Salomè”.
E’ immerso nei suoi pensieri quando all’improvviso scorge una donna che con passo sicuro che gli si avvicina . Una donna di una bellezza inusuale, decisa ed elegante. Senza esitazione Lou Salomè inizia a spiegargli perché ha richiesto l’incontro: il filosofo e suo personale amico Friedrich Nietzsche si trova in uno stato di profonda disperazione con sintomi fisici gravi quali tormentose emicranie, continui accessi di nausea, cecità, disturbi gastrici e capogiri. Non riesce a dormire e per questo assume dosi pericolose di morfina. La donna ha paura che l’amico possa arrivare a suicidarsi. Nessun medico è stato in grado di capire la sua malattia né di alleviare i suoi sintomi, così lei si è rivolta a Breuer medico personale di grandi scienziati, artisti e filosofi nonché diagnosta geniale.

Breuer ritiene di non poter essere di aiuto al filosofo dato che per la disperazione non vi è medicina come non vi è un medico per l’anima. E’ vero che con la sua paziente Bertha Pappenheim, alias Anna O., la tecnica sperimentale da lui denominata “cura basata sul parlare aveva funzionato almeno in parte e la paziente aveva avuto dei giovamenti ma Breuer nutre dei dubbi che possa funzionare con questo paziente, data la natura ideale dei suoi sintomi.

La cura da lui provata con Anna O. la quale presentava tutti i sintomi tipici dell’isteria (disturbi sensori e motori, contrazioni muscolari, sordità, allucinazioni, amnesia, afonia, fobie) si era basata inizialmente sull’eliminazione dei sintomi per mezzo della suggestione ipnotica e in seguito unicamente permettendo alla donna di raccontare nei particolari ogni evento della giornata che l’avesse turbata.

“Spazzare il camino”.
Nel momento in cui Bertha riusciva a risalire all’origine di un sintomo raccontando al medico tutto, comprese le emozioni da lei provate, quel sintomo sembrava scomparire.
Purtroppo Breuer non aveva più in cura quella giovane donna e, a causa della gelosia di sua moglie Mathilde, era stato costretta a trasferirla al sanatorio di Binswanger a Kreuzlingen.

Settimane più tardi Breuer riceve una nuova visita di Fräulein Salomè.
La donna racconta al medico come ha conosciuto Nietzsche e quali fossero i loro rapporti. Aveva fatto la sua conoscenza otto mesi prima tramite Paul Rée, anch’egli filosofo amico di Nietzsche.
Da allora aveva avuto inizio tra loro un ménage à trois casto, intellettuale, basato su lunghe discussioni filosofiche. La loro trinità era andata però sgretolandosi a causa delle influenze negative della madre e della sorella di Nietzsche che non vedevano di buon occhio la situazione e dell’interesse amoroso e fisico che Paul Rée aveva sviluppato nei confronti di Lou e che aveva portato i due uomini a frequenti litigi.
La donna si era trovata costretta a porre fine al loro rapporto connotato da troppo dolore e da troppe intrusioni.

Breuer ascolta il racconto interessato e dubbioso al tempo stesso. Accetta di incontrare Nietzsche con la clausola di non fare menzione di Fräulein Salomè né del fatto che la donna gli avesse lasciato i libri non ancora pubblicati di Nietzsche. Due settimane più tardi Breuer riceve Nietzsche nel suo studio e lo invita a raccontare con precisione i suoi sintomi e a descrivere i suoi dolorosi attacchi di emicrania.
Poi procede con l’anamnesi e con l’esame fisico.

Nonostante l’abbondanza di sintomi riportati dal paziente tuttavia non trova alcuna anomalia fisica.

Alla parola ‘disperazione’ azzardata da Breuer nel tentativo di andare oltre il filosofo tende a bloccarsi e a cambiare discorso, al tentativo del medico di ricollegare i sintomi fisici a difficoltà psicologiche e sociali Nietzsche ribadisce che la malattia c’era già prima che lui provasse ad avvicinarsi agli altri per esserne tradito. Nietzsche quindi non aveva alcuna intenzione di discutere e neanche di ammettere l’esistenza nel proprio intimo di uno stato di disperazione.

“Stava fingendo oppure non avvertiva la disperazione perché aveva già deciso per il suicidio?” Inizia così la cura di Friedrich Nietzsche basata prima sui farmaci per ridurre i sintomi fisici e poi sul parlare.

Ma la cura non è così facile: Nietzsche si mostra seccato ogni volta che Breuer mostra comprensione ed empatia ed interpreta qualsiasi espressione di sentimenti positivi come una sfida di potenza. “Aprirsi a vicenda è il preludio del tradimento e il tradimento fa star male, no?”. Inoltre vive la sua malattia come un qualcosa di positivo che gli ha permesso di staccarsi dalla vita universitaria che non desiderava più. Un qualcosa che gli ha permesso di emanciparsi. “Tutto ciò che non mi uccide mi rafforza”.

Lo stress, proposto da Breuer come causa sottesa di emicrania e che può derivare da diversi fattori psicologici, viene escluso da Nietzsche: proprio rinunciando alla vita lavorativa e sociale è riuscito ad eliminare del tutto lo stress dalla sua vita. Ma, come dice Breuer, l’estremo isolamento non elimina affatto lo stress, è stress esso stesso: la solitudine è un terreno di coltura della malattia.

Alla proposta del medico di ricoverarlo per un mese in modo da tenere sotto osservazione i suoi attacchi di emicrania Nietzsche rifiuta e se ne va dallo studio, ma la sera stessa Breuer viene svegliato dal portiere del gasthaus dove risiede il filosofo. Sta molto male. Ha un attacco di emicrania molto forte e ha ingerito troppo idrato di cloralio. E’ privo di sensi. Breuer riesce a placare l’attacco con farmaci e massaggi. Avvicinandosi a lui sente che sta sussurrando: “Aiutami, aiutami, aiutami, aiutami!”. Un altro Nietzsche, capace di chiedere aiuto.

Nel momento in cui Nietzsche si reca nello studio di Breuer per chiudere ogni rapporto, il medico ha già escogitato un piano. Ha deciso di calarsi lui nei panni del paziente chiedendo al filosofo di curarlo, di guarirlo dalla sua disperazione. Infatti, anche se la sua vita all’apparenza sembra essere appagante egli si sente profondamente disperato, oppresso dai doveri e dalla famiglia, preoccupato di invecchiare e terrorizzato all’idea di morire. Sente che gli manca il coraggio di cambiare vita o di continuare a viverla.

“Vi chiedo solo di ascoltarmi, interrompendomi con tutte le osservazioni che vorrete”.
Il patto tra i due stabilisce che Nietzsche si sarebbe impegnato nell’aiutare Breuer a risolvere la sua disperazione e che lui si sarebbe fatto ricoverare alla clinica Lauzon per accertamenti e controlli. Lo scopo di Breuer è ovviamente diverso: egli vuole arrivare indirettamente alla radici del male del filosofo, invitandolo ad esprimere apertamente la sua disperazione e a liberare la coscienza nascosta.

Favorire l’integrazione dell’inconscio come gli ha suggerito il suo caro amico Sigmund Freud.

Inizia così un doppio rapporto terapeutico. Breuer si reca ogni giorno alla clinica per visitare Nietzsche e valutare l’andamento dei suoi sintomi e Nietzsche si impegna nell’ascoltare e consigliare il medico.

Nel corso degli incontri Breuer racconta al filosofo ogni aspetto della sua vita che gli crea angoscia: Bertha a cui pensa costantemente e che desidera più di ogni altra cosa, la sua ex assistente e amica Eva che ha dovuto licenziare sempre per la gelosia della moglie, la vita familiare che avverte sempre più oppressiva e costretta e il suo rapporto con la moglie. Piano piano Breuer prende consapevolezza del fatto che la sua angoscia è reale e profonda.

Nietzsche in modo molto razionale lo invita ad andare a fondo: a ricercare il significato dei suoi sintomi cercando di farlo riflettere su come sarebbe la sua vita senza di essi. I sintomi sono portatori di un messaggio che solo nel momento in cui verrà compreso permetterà la loro scomparsa. Forse anche Nietzsche sta prendendo coscienza.

La svolta nella vita di Breuer arriva quando Nietzsche lo porta a comprendere che la vita va vissuta al momento giusto; la morte non fa paura se si muore dopo aver consumato la vita. Per vivere però bisogna scegliere. Questo non aveva mai fatto Breuer: scegliere. Ma che cosa avrebbe dovuto scegliere? La scelta per lui, divenutone consapevole, è scegliere lui stesso la propria vita: sua moglie, il suo lavoro, i suoi amici. Riappropriarsi di questa vita ed essere felice di averla finalmente scelta.

E Nietzsche? Breuer sente di non poter fare molto, se non essere onesto con lui, essergli amico. Ed è proprio questo che alla fine il filosofo desidera più di tutto: un focolare. Non morire in solitudine. Essere amato e toccato. E così le lacrime iniziano a scendere sul suo viso. Lacrime soffocate a lungo che adesso reclamano la libertà. Nel momento in cui esprime la propria solitudine a qualcuno questa non esiste più e neanche la disperazione che da essa deriva. Le lacrime forti sono purificatrici.
Entrambi liberati, Breuer e Nietzsche si salutano e riprendono i propri separati destini.

Il romanzo di Yalom basato su informazioni in parte veritiere mette in luce aspetti importanti della psicoterapia.
Innanzitutto, la parola come possibilità di liberarsi dalle angosce che causano i sintomi.
La cura basata sul parlare, elaborata da Breuer in collaborazione con Freud e che Anna O. stessa ha definito“spazzare il camino” consiste fondamentalmente nel dire tutto ciò che viene in mente in un determinato momento e risalire da lì alle origini dei sintomi.

Naturalmente in tutto questo un presupposto fondamentale è la relazione.
La relazione è lo strumento terapeutico più potente perché è attraverso di essa che il paziente trova la fiducia necessaria per parlare di sé e per esplorarsi.
Solo nel momento in cui Nietzsche ha sentito Breuer veramente “amico”, ha potuto lasciarsi andare ad un pianto liberatorio.

Ovviamente è fondamentale la capacità empatica del terapeuta: Breuer riesce ad aiutare Nietzsche solo mettendosi nei suoi panni di paziente che soffre.

E’ la capacità di stare autenticamente nel mondo dell’Altro che ci permette di far sentire il paziente realmente compreso nei suoi vissuti.

La Reciprocità che il terapeuta può mettere in atto raccontando egli stesso qualcosa di suo, ribaltando i ruoli e parlando di sé, nel momento in cui il paziente non è in grado o non desidera esporsi è proprio quello che fa Breuer.

E infine altro aspetto importante è l’ascolto autentico e non giudicante da parte del terapeuta, che presuppone in parte di sapere più del paziente ma che in realtà non sa.
Solo il paziente ha in sé tutte le risposte, sebbene non riesca a vederle chiaramente se non con l’aiuto del terapeuta: Nietzsche ha sempre saputo di temere la solitudine ma il difficile per lui era ammetterlo. Solo con l’Altro al suo fianco si è sentito nella possibilità di lasciarsi andare alle emozioni e piangere.

“Per dare vita ad una stella danzante, occorre avere dentro di sé caos e confusione frenetica”.

Irvin D. Yalom
Le Lacrime di Nietzsche
Neri Pozza, 2006

domenica 11 gennaio 2009

Non ora, non qui


"Mi torna alla mente il passato con parvenza di intero, per un bisogno di appartenenza a qualcosa, che stasera mi spinge verso di esso, verso una provenienza."

Questo breve ed intenso primo libro di Erri De Luca porta già impressi in ogni frase i segni di un vero scrittore: un tono di voce che appena si coglie diventa inconfondibile e la integrità di uno sguardo che sa mettere nel giusto fuoco i pensieri e i sentimenti.

Qui la memoria non è consolazione, ma è un dramma, e il tempo gioca un suo gioco crudele stabilendo distanze insormontabili tra chi narra e la materia del proprio racconto.

Una luce bianca e densa come quella che filtra da nuvole alte, bagna queste pagine.

E' la luce in cui il protagonista de "Il posto delle fragole" di Bergman vedeva i propri genitori ancor giovani a pescare con la canna sulle rive di un lago.

Leggendo questo libro, che rievoca i sentimenti di una infanzia trascorsa a Napoli e per sempre scomparsa, ho ripensato a quella immagine struggente che dice con assoluta e trasparente immediatezza il dolore per la vita che tutto cancella e ci rende estranei a noi stessi e al nostro passato.

(Raffaele La Capria)

Erri De Luca - Non ora non qui - Ed. Feltrinelli

venerdì 9 gennaio 2009

Un altro caso drammatico

Mi sono presa l'influenza, con tanto di tracheite. Non è che sia la notizia del giorno :)
Solo che, prima cosa non risponderò per oggi ai vostri graditi commenti, ma è una promessa, appena sto meglio lo farò.

Altra cosa che non mi lasciava tranquilla oggi, nel letto, è quanto avevo letto ieri sul blog de L'Incarcerato a cui gentilmente rimando tutti coloro che ancora non conoscono la storia di Nicki e del dramma che sta vivendo sua madre.
A me è venuto subito in mente l'altra storia tremenda, quella di Federico Aldrovandi.
Questa lo è altrettanto.
Si tratta di mandare una lettera a Santoro: sul blog dell'Incarcerato ci sono tutti gli estremi.

Vado a copiarla e ad inviarla, poi me ne torno sotto le coperte.

Ancora un grande grazie a tutti.

Tramandare


Ho avuto teatri immensi, arene, popolari tendoni, quando gestire il dramma aveva il senso di una collettiva funzione. La nuova era ha sommerso di tele-rumori la civiltà; un'ignava e matta bestialità i fogli del Libro ha disperso. E mi tenta, oggi, la cella appartata



in cui pochi e per pochi (o addirittura per l'età futura?) dire l'epilogo di una morte avventura, i suoni-traccia di una parola passata. Perché il linguaggio resista, sottrarre le schede al Medioevo che avanza;

farsi - da istrione - archivista.
(Vittorio Gassman - "Vocalizzi" - Ed. Longanesi)

giovedì 8 gennaio 2009

Oltre l'urlo dell'indicibile

La voce di Ingebrog Bachmann , la celebre scrittrice e poetessa nata in Austria nel 1926 e morta a Roma nel 1973 - autrice di poesie, romanzi, saggi e racconti - è un urlo silenzioso di dolore, che non si può dire. Solo scrivere.

"Un libro dev'essere un'ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi": questa frase, che si legge in una lettera indirizzata a Kafka e viene ripresa nelle Lezioni di Francoforte (1959-1960), è il punto da cui partire per comprendere l’estetica filosofica e letteraria dell’artista.

La Bachmann spinge la sua indagine esistenziale di donna e scrittrice ad un limite estremo: l'infelicità è la conseguenza di un difetto strutturale della società, che si riflette nella feroce autorità paterna e nella violenza contro gli ebrei, a cui la scrittrice ha assistito da bambina. La scrittura è l'unico mezzo, seppur doloroso e difficile, per guarire le ferite provocate dall'esistenza.

Già nella tesi di laurea dedicata alla filosofia di Heidegger, la Bachmann interpreta il Tractatus di Wittgenstein come tentativo di "mettere ordine" nella lingua, di smascherare il vuoto che si cela dietro la "chiacchiera" esistenzialistica.
In questa dissertazione della Bachmann, come nei due saggi successivi su Wittgenstein del 1951 e del 1953, è interessante la chiara delimitazione del campo del dicibile - il mondo - e di quello dell'indicibile - il mistico: non è compito della filosofia parlare di metafisica.
Questa limitazione del dicibile, però, porta ad un vuoto che non è più solo linguistico, ma esistenziale.

Ora, la Bachmann scrittrice accetta i limiti rigorosi che ha mutuato da Wittgenstein, ma nello stesso tempo ritiene urgente la necessità di superarli.

Ed è in questa direzione che individua l'unico linguaggio autentico nella tensione della parola verso l'indicibile, l'ombra, la tenebra. Un linguaggio che non può essere detto e esplicitato, e che costruisce il risvolto oscuro dell’esistenza, dove la parola riacquista significato e il valore di una speranza.

La Bachmann ritiene dunque che esista per lo scrittore una sorta di obbligo morale ad infrangere il necessario silenzio delle scienze sui sentimenti umani.

In quanto lotta contro il silenzio, la letteratura è rievocazione delle "memorie taciute", dei "crimini accaduti sui luoghi reali del delitto, quelli interiori", e in questo modo diventa una forma particolare di conoscenza, l'unica in grado di gettare un ponte tra noi e una verità che non sia quella astratta della logica:

”Il compito dello scrittore non può consistere nel negare il dolore, nel nasconderne le tracce, nel far nascere illusioni su di esso. Per lui, anzi, il dolore deve essere vero e deve essere reso tale una seconda volta, cosicché noi possiamo vederlo. Tutti, infatti, vogliamo diventare vedenti… E l'arte dovrebbe portare a questo: far sì che, in tal senso, ci si aprano gli occhi”.

Il dolore di cui la Bachmann parla è quello della guerra, quel dolore provato troppo precocemente quando le truppe di Hitler invasero Klagenfurt: l'amara scoperta della volontà di distruzione, del desiderio di supremazia, delle "ombre cupe" che accompagnano la vita di ogni giorno.

Come avviene già in Proust, e poi in Thomas Bernhard, l'esperienza del dolore è insieme motivo e giustificazione dell'attività artistica.

In questo modo la Bachmann giunge anche ad una dimensione politica del tutto nuova all'Esistenzialismo.

Nella coscienza esistenzialistica, infatti, l'uomo sembra essere riportato ad una condizione di totale irresponsabilità nei confronti della società, mentre l'artista ha dinanzi a sé una responsabilità di carattere etico: stabilito il confine tra filosofia e letteratura, e definiti gli strumenti che è possibile usare in ognuno dei due campi, resta da tracciare il limite che separa la lingua della letteratura da quella che usiamo ogni giorno.

"Cattiva lingua", "chiacchiera", "parole di morte", "lingua degli ingannatori", sono espressioni che la Bachmann adopera a proposito di questa lingua opaca, che nasconde la realtà e nega l'esistenza del dolore che sempre accompagna le relazioni interpersonali.

La protesta contro questo uso "per frasi" della lingua - il silenzio - è però solo la necessaria premessa ad una "nuova lingua", che sia espressione di un impulso morale, di un nuovo modo di pensare.

"Una nuova lingua deve avere un andamento nuovo, e questo può accadere solo se un nuovo spirito la abita".

È l'Utopia di Musil che si affaccia di nuovo all'orizzonte della letteratura, un'utopia che "non è uno scopo, ma piuttosto una direzione".

Scrive la Bachmann nella prima delle cinque Lezioni di Francoforte, Domande e pseudodomande:

“La realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto”.

Non si tratta quindi solo di una esperienza strettamente intellettuale, letteraria e filosofica, ma soprattutto di un nuovo impegno etico, esistenziale.

La Bachmann recepisce l'indicazione di Wittgenstein sul limite del linguaggio, ma segnala la speranza che il sentimento della vita può trovare la sua espressione attraverso la forma artistica della poesia e della narrativa.

Vi è una forte carica utopica nella poetica della Bachmann.

Il tempo ("il tempo dilazionato" come nel titolo di una delle raccolte poetiche) non è neutro, ma esige una presa di posizione.

La parola poetica va alla ricerca dei valori che nella storia sono stati traditi: è per questo che Bachmann afferma la necessità che gli uomini debbano soffrire il loro passato.

Scrive in Malina: “La lingua è il castigo. Tutte le cose devono entrare in essa e debbono poi scomparire secondo la loro colpa e secondo la misura della loro colpa”.

Rispetto alla condizione umana destinata al dolore e alla follia, dunque, l'unica redenzione è la scrittura.

Come aveva esclamato Ulrich ne L'uomo senza qualità di Musil, la nostra vita dovrebbe consistere solo di letteratura. Pensiero e linguaggio portano alla disintegrazione della personalità; resta la letteratura che, mediante un nuovo dispositivo linguistico, interrompe questa corsa verso la tenebra.

La letteratura diventa così l'altro volto dell’esistenza umana, il punto in cui la vita si raccoglie, anziché disperdersi nel delirio. Per questo la Bachmann ha stabilito una condotta di scrittura che è filosofica e letteraria: una scrittura come pensiero raccontato.

Come scrive in Malina, in un passo struggente:

“Io mi riproduco nelle parole e anche Ivan, creo una nuova stirpe, dall’unione mia e di Ivan viene al mondo ciò che la creazione ha voluto: /Uccelli di fuoco/ Azzurrite / Tuffo di fiamme / Gocce di giada”.

L’Io che scrive

Nella lezione che porta questo titolo, la Bachmann ripercorre con lucidità l’itinerario e la trasformazione dell’Io che scrive nell’arco di tempo che va dal XIX al XX secolo: da Proust, Céline e Dostoevskij a Svevo e Beckett.

Alla fine dell’800 l’Io pone sé stesso al centro della storia e illumina gli eventi. Più tardi, invece, l’Io si dissolve, ed è la storia ad essere nell’Io.

Questo nuovo abisso, questa perdita di certezze, rappresentano un nuovo modo di trattare il tempo.

Nella Recherche di Proust l’”Io scompare per lunghi tratti”, l’Io di Beckett “si perde in un mormorio”.

Eppure, conclude la scrittrice, “non è forse vero che la letteratura continuerà sempre in situazioni nuove e con parole nuove a dare voce all’Io? Non esistono infatti dichiarazioni ultime. Il miracolo dell’Io è appunto questo: dovunque parli, l’Io vive”.

Letteratura come utopia

In questa lezione magistrale, l’ultima delle cinque, la Bachmann si chiede cosa significhi il termine “letteratura”, quale sia il suo ruolo nel mondo moderno, e che senso abbia oggi scrivere quando il meglio – probabilmente - è già stato espresso.

Dopo aver affermato che lo stesso sostantivo “letteratura” è utilizzato spesso in termini dispregiativi o addirittura offensivi, e che essa è “omni-comprensiva, elastica definizione di una cosa apparentemente chiara, voltata e rivoltata cento volte e non solo dalla scienza”, dice:

“Ma la letteratura non è un fatto compiuto, essa è il territorio più aperto, più aperto ancora di quelle scienze in cui ogni nuova scoperta soppianta le vecchie… Essa preme contro di noi, e ci fa intendere che nessuna delle sue opere è datata, perché esse contengono tutti quei presupposti che si sottraggono ad ogni accordo e catalogazione definitivi. Questi presupposti vorrei provare a definirli utopici… La letteratura conosce soltanto il proprio intento fortissimo di influenzare ogni presente”.

E aggiunge: “Per fortuna, in questo paese di Utopia della cultura esiste una componente di utopia molto più pura, una specie di tendenza da seguire quando la nostra cultura non potrà più salvare la faccia nemmeno nelle più solenni festività… L’importante è continuare a scrivere. Certo, continueremo a tormentarci con la parola letteratura, con quello che essa è e con quello che noi crediamo che sia… Ma di questo dobbiamo rallegrarci, perché se ci sfugge è per amor nostro, per rimanere in vita e legare la nostra vita alla sua in quelle ore in cui scambiamo il nostro respiro con il suo. Letteratura come utopia – lo scrittore come esistenza utopica – i presupposti utopistici delle opere”.


Bachmann, Ingeborg
Letteratura come utopia
Bachmann, Ingeborg Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte Adelphi, 1980 (ristampa 1993) pp. 128 euro 10.33 Traduzione di Vanda Perretta

mercoledì 7 gennaio 2009

Arte e Follia

Qualche giorno fa, in un commento ad un mio post, Jaenada commentava sul fatto che grandi come Alda Merini o Pound, fossero stati rinchiusi in manicomio.

Proseguendo il discorso e pensando all'associazione mentale che spesso leggendo o guardando opere d'arte mi colpisce dolorosamente, ossia il pensiero della "follia" - vorrei fermarmi a scrivere alcune considerazioni, non tutte mie.

Ho chiesto aiuto - da tempo - ad autori come Umberto Galimberti, Eugenio Borgna, Bruno Callieri, persone che portano chiarezza, conforto davanti ad un tema simile: la follia.

E' indubbio che ci sia una creatività incistata nella follia.

C'è nell'artista un bisogno di esprimere mondi altri da quello che abitualmente viviamo, un desiderio di espandere orizzonti fino alla vertigine del senza-confine.

Come diceva Jaspers "c'è la perla nella conchiglia" - immagine metaforica dello spirito creativo dell'artista che è al di là dell'opposizione tra normale ed anormale, come appunto la perla che nasce dalla malattia della conchiglia.


Come non si pensa alla malattia della conchiglia - ammirandone la perla - così di fronte alla forza vitale dell'opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita.

Eugenio Borgna legge la follia come "la sorella sfortunata della poesia".

E quindi le esperienze di vita e di morte nelle considerazioni filosofiche di Simon Weyl, la malinconia sfibrata ed oscurata di Emily Dickinsons e di Ingeborg Bachmann che si fa musica in Franz Schubert, il destino di dolore e lo scacco esistenziale di Van Gogh, nelle cui esperienze d'arte, trova espressione l'angoscia psicotica .... sono lo specchio dove, spesso oscuramente, a volte con toni abbaglianti - la condizione esistenziale di noi tutti trova un suo riflesso, una sua descrizione.

La follia - come scrive Bruno Callieri - è la scissione nell'uomo, la sua lontananza dagli altri, la sua estraneità al mondo e la psichiatria organistica di certo non aiuta, proponendo farmaci.

Farmaci, non ascolto, non conoscenza delle diverse modalità della sofferenza esistenziale che non ha organi del corpo specifici come riferimento.

Ma anche noi, noi tutti dovremmo prestare attenzione all'urlo straziante del folle (chi non ha davanti agli occhi "l'Urlo" di Munch") o al suo muto silenzio, dal momento che non possiamo ignorare che la sua disperazione - solo per intensità e frequenza differisce dalla nostra.

"Noi siamo un colloquio" diceva Hoederlin dall'abisso della sua follia.

Già Kafka annotava che "scrivere una ricetta è facile, ma ascoltare la sofferenza è molto, molto più difficile"


Alcune considerazioni sono state tratte da:

Umberto Galimberti - Scoprire Il dolore dell'anima;
Eugenio Borgna - Come in uno specchio oscuramante,
Eugenio Borgna - Malinconia
Bruno Callieri - Corpo, esistenze, mondi.

martedì 6 gennaio 2009

La Befana

Mia figlia da piccola ha sempre avuto paura della befana, questa vecchietta così poco bella, che entrava di notte nelle case.
Ma era una paura che teneva per sé, finché un anno si decise a confidarsi ed io le raccontai la verità. Da una iniziale incredulità, passò ad un sollievo enorme...

Mi ha sempre stupito però che non avesse mai avuto paura di Babbo Natale, forse perché il nostro rito domestico prevedeva l'apertura dei pacchetti sotto l'albero il mattino di Natale, tutti insieme.

Quando invece ero bambina io, ero euforica la sera prima: avrei avuto carbone o giocattoli?

Di un anno mi ricordo molto bene: durante la notte, già verso mattina, entrò mia madre, mi fece alzare dal letto e con voce bassa, concitata, un po' da cospiratrice, mi prese per mano e mi portò in cucina.

Lì, il tavolo allungato per la circostanza, era strapieno di giochi. Trionfava in mezzo agli altri un fiammante triciclo rosso.

lunedì 5 gennaio 2009

Facebook rifiuta di censurare i gruppi di sostegno a Riina

Avevo letto sul blog di Pino Amoruso (Aschenazia) un post che faceva riflettere su una fiction trasmetta su canale 5, che io non guardo mai.
Ora trovo on line questo articolo su La Repubblica

"Su Facebook vengono rimosse le foto di donne che allattano al seno", ribadisce da Palo Alto (California) il portavoce del social network più famoso di Internet, Barry Schnitt.

Ma è ormai polemica mondiale. "E invece perché nessuna censura nei confronti di chi inneggia su Facebook al capomafia Totò Riina?", ribatte un autorevole commentatore del quotidiano inglese Times.

"Davvero una strana morale - scrive Daisy Goodwin - quella che sostiene la necessità che il social network sia un ambiente sicuro anche per i ragazzini che frequentano Internet e poi non eccepisce nulla sui 2000 e più utenti, la gran parte giovanissimi, che inneggiano a un uomo che sta scontando molti ergastoli. Per Natale, i suoi fan gli hanno mandato persino gli auguri attraverso Facebook".

Nei giorni scorsi, quelle pagine su Riina e tanti altri mafiosi avevano fatto indignare la sorella del giudice Giovanni Falcone, Maria: "Purtroppo, il male esercita ancora fascino sui nostri giovani - aveva detto dalle pagine di Repubblica - bisogna impegnarsi perché ciò non accada. Certi messaggi su Internet, certi film non aiutano".

Su Facebook, invece, qualcuno continua a chiedere addirittura la beatificazione del compare di Riina, Bernardo Provenzano: all'appello "Santo subito" hanno già risposto in 152. Con accorate adesioni: "Grande padrino", "Sei il numero uno".

E' preoccupato Salvatore Borsellino, il fratello del giudice Paolo, anche lui vittima di Riina e Provenzano, per il proliferare di pagine Facebook che inneggiano ai padrini. "Credo che sia in corso una campagna ben precisa di disinformazione - dice - per delegittimare i magistrati, ma anche tutti coloro che cercano la verità sui misteri di Riina e Provenzano".

Borsellino, che è ingegnere e grande esperto della Rete, ha trovato in quelle pagine non solo messaggi deliranti, ma anche dell'altro: "Ci sono messaggi che tentano di mettere in discussione sentenze già passate in giudicato.
Non dimentichiamo - dice - che uno dei progetti principali dei padrini è ormai da anni quello di ottenere la revisione dei processi. Credo che su Facebook stiano operando agenzie ben precise di disinformazione. Agiscono dietro le foto e le identità di giovanissimi, ma non sono tali. Come fanno a sapere così tante cose sulle inchieste che hanno riguardato Riina e soprattutto i suoi complici già in galera? Uno soprattutto, il funzionario dei servizi segreti Bruno Contrada".

Intanto, su Facebook, sono già 34 i Bernardo Provenzano nella lista degli utenti del sociale network. E 14 i Totò Riina: al boss che volle l'avvio della stagione delle bombe, per eliminare i giudici Falcone e Borsellino, è dedicato uno dei più grandi fan club di Facebook, con oltre duemila iscritti.

Ma dal quartier generale di Palo Alto non arriva alcun annuncio di censura. Il problema restano le foto "esplicite", come le chiamano, in cui le mamme che allattano mostrano in maniera "troppo evidente" il seno. Il portavoce del social network tiene a precisare: "Allattare al seno è un atto naturale e meraviglioso. Siamo felici di sapere che numerose donne abbiano deciso di condividere questa esperienza su Facebook. Non agiremo nei confronti delle foto di allattamento che seguono i termini del regolamento". Tutte le altre rientrano nelle rigide regole di Facebook contro la nudità. "Assurdo", sentenzia il Times. E il dibattito corre anche sui blog siciliani.

Commenta con amarezza Giovanna Maggiani Chelli, dell'associazione dei familiari delle vittime di via dei Georgofili, dove i corleonesi Riina e Provenzano ordinarono una strage, nel 1993. "Davanti a tanta indifferenza e a tanto isolamento creato attorno a noi che cerchiamo ancora la verità, è più che giusto che i commentatori di Facebook scrivano che Riina è un grande o che cerchino il sosia di Bernardo Provenzano. In fondo loro hanno vinto".

http://www.repubblica.it/2008/12/sezioni/tecnologia/facebook-capodanno/mafia/mafia.html?rss

domenica 4 gennaio 2009

Bisogno di silenzio

I pesci vivono in banchi, le api volano in sciami, ma alcuni animali - i gatti domestici, ad esempio - sono dei solitari.

Gli esseri umani mostrano entrambe le tendenze: noi siamo amanti della compagnia ma apprezziamo anche la solitudine. Viviamo in famiglie, in tribù e in città, eppure allo stesso tempo godiamo del piacere di essere soli. Lavoriamo in giardino, leggiamo e preghiamo per conto nostro.

Anche se passiamo la maggior parte del tempo con altre persone ci sono dei periodi in cui preferiamo stare in compagnia semplicemente di noi stessi e ritirarci dal trambusto del mondo per trovare il nostro 'spazio' privato.

Qui il silenzio ha un effetto curativo. Qui la solitudine aiuta a mettere a fuoco il senso fondamentale del mio essere.

Nel silenzio e nella solitudine troviamo spazio e tempo di godere in tranquillità la meraviglia senza tempo della coscienza: il miracolo di un argine ricoperto di aglio selvatico, ad esempio, o del volo di un picchio. Come nota Ronald Blythe, il rumore fa sì che udiamo ben poco; il silenzio ci fa captare suoni meravigliosi.

Un tempo il silenzio era tenuto in grande considerazione.

La ricerca della solitudine risale a tempi antichi ed ha le sue radici nelle filosofie cinesi, indiane ed europee.

A partire da Lao-Tse, Buddha, i Padri del Deserto e i primi eremiti Celti, passando per Rousseau, Henry David Thoreau e Thomas Merton fino al tempo presente, certi individui hanno rifiutato il materialismo delle società in cui vivevano preferendo la semplicità e la ricerca della saggezza spirituale.
Viaggiavano per trovare la solitudine.
Ascoltavano il silenzio e in esso udivano le pulsazioni creative del loro cuore.
Visitati dal silenzio imparavano che cosa giace nella profondità del proprio essere. In verità, chi ha il coraggio di stare da solo arriva a sperimentare tutto ciò che normalmente è ostacolato dall'esperienza, dalla brama o dal pregiudizio.
La verità di ciò può soltanto trovarsi nella pratica stessa, e neanche allora può essere espressa a parole.

Il silenzio viene dall'invisibile, dall'al di là, e farne l'esperienza significa venire a contatto con gli inizi delle cose, per rinnovarsi.

Come dice Thomas Merton: "La persona solitaria, ben lontana da chiudersi in se stessa, diventa una con tutti. Partecipa della solitudine, della povertà, dell'indigenza di ogni essere umano."

In quasi tutto il passato pre-industriale il silenzio si stendeva ovunque. Richard Rolle di Hampole (c.1300-1349), il padre del misticismo inglese, scrisse lodandone i numerosi pregi: "Grande piacere ho avuto stando seduto in luoghi selvaggi, così da più dolcemente cantare lontano dal rumore, e con cuore più leggero lodare Iddio, e senza dubbio ho attinto a questo dono per amare con meraviglia ogni cosa."

È anche vero che il silenzio non si trova più così facilmente ovunque. La nostra epoca è ostile al silenzio e così si perde anche il profondo rispetto per la natura.

La gente vuole rumore e luci e la loro assenza mette tutti a disagio. Ma non finisce qui: noi desideriamo ardentemente incessante divertimento e stimolazione.

Si distrugge il silenzio e si consuma di tutto: film, notizie, riviste, cibo, bevande, abiti, droghe, anti-depressivi, viaggi, partner sessuali e, naturalmente, denaro.

Parafrasando George Orwell: la nostra è una vita irrequieta, priva di cultura, che predilige i cibi precotti, la televisione, i giochi sul computer e il telefono cellulare.
A tale civiltà appartengono quelli che sono maggiormente a proprio agio nel mondo moderno di cui fanno indubbiamente parte: i tecnici e gli specialisti ben pagati, gli esperti di Tecnologia dell'Informazione, i cantanti rock, i giocatori di calcio e i presentatori dei più popolari spettacoli televisivi.

Orwell descriveva una società in cui siamo diventati ingranaggi di una ruota economica incontrollabile, un sistema di valori che non vede la gente in quanto esseri umani ma in quanto consumatori di cose.

Tutto lo proclama: gli 'spot' in TV, gli enormi affissi che magnificano i pregi delle automobili, la posta-spazzatura che promuove viaggi all'estero, la pubblicità su Internet: parole, immagini, suoni, comportamento, che raccontano tutti la stessa storia.

I critici del capitalismo si contano a migliaia, ma forse pochi di essi si sono avvicinati alla verità più di quanto non abbia fatto l'eminente psichiatra sociale di origine tedesca, Erich Fromm (1900-1980).

La persona comune, egli sostiene, oggigiorno è una straniera nell'universo: al livello più profondo essa sente la sua depressione, la sua noia, il vuoto che pervade la sua anima.

Sono questo vuoto e questa disaffezione che chiedono soddisfazione e vogliono essere riempiti dal rumore, dal possesso di cose materiali e dal divertimento. Eppure lo sappiamo tutti che il rumore e il divertimento ci fanno ancora più vuoti e bisognosi. Non ci rendono affatto più felici.

A parte la paura di ammalarsi o di essere umiliato dalla perdita di posizione sociale e di prestigio, la paura della noia gioca un ruolo massimamente importante fra le paure che minacciano l'uomo moderno. In un mondo di spassi e divertimenti, egli ha paura della noia ed è felice quando un'altra giornata è passata senza inconvenienti, un'altra ora è stata uccisa senza che lui si sia accorto della noia in agguato.
Erich Fromm

Queste parole sono state scritte all'inizio degli anni '60, in un tempo precedente l'avvento del riscaldamento globale del pianeta e dell'attuale vandalismo di cui è vittima il nostro patrimonio terrestre; ciò, dunque, era prima del saccheggio del pianeta di cui ora finalmente cominciamo ad essere sempre più consapevoli.

Perciò alla disperazione di Fromm per l'uccisione delle ore, noi possiamo aggiungere la nostra disperazione per la strage di tutta la vita sulla Terra. D'altra parte dobbiamo riconoscere che c'è una stretta relazione tra l'estinzione degli anfibi, dei mammiferi, degli uccelli, dei pesci e la nostra richiesta insoddisfatta di saziare l'enorme fame di stimolazione come pure l'entusiasmo per il materialismo: questi fenomeni formano un'unità.

E dunque possiamo dire che il silenzio e la solitudine non sono mai stati così importanti come in quest'epoca. Ci preservano dalla stanchezza estrema, dal fanatismo, dall'irrequietudine - da ogni eccesso; rimangono il terreno fertile della creazione, la sorgente della contemplazione, il luogo dell'attenzione totale e della comunione più intima, come avviene fra due amanti così affiatati da non aver bisogno di riempire lo spazio con parole. È solo nella solitudine e nel silenzio che la nostra vita è realmente presente, che noi rispondiamo veramente al battito del cuore dell'universo e siamo liberi di contemplare il miracolo dell'esistenza. Forse non il mondo della strada ma il mondo del qui e ora.

Da “Fiorigialli.it”

sabato 3 gennaio 2009

Tu mi domandi


Tu mi domandi come mai io vivo
sulle colline grigie.

Io sorrido, ma non rispondo, perché
i miei pensieri sono altrove.

Come petali di pesco portati
dalla corrente, sono partiti
verso altri climi, verso paesi
diversi dal mondo degli uomini.

(Li - Po)

L'aura (o il fascino)

"In greco e in latino si parla del fascino come fosse una brezza, un'aura spirante dalle persone o dai luoghi, che a volte cresce, diventa turbine, nembo, nube abbagliante, riverbero dorato, ingolfa e stordisce. Come la gloria del guerriero, splende la bellezza femminile.

In una poesia che intitolò Verginale, Pound descrive l'abbraccio di una donna soffusa d'aura.

Via, via! Andatevene! L'ho appena lasciata, che non guasti questo involucro un minor fulgore, l'aria che mi avvolge ha una lievità nuova. Esili le sue braccia, ma mi hanno stretto lasciandomi ammantato di un'estetica garza, come d'erbe soavi, come di chiarità sottile. Oh la magia che accanto a lei ho assorbito!

Antaura, l'opposto dell'aura, era in Grecia il demone del malessere e dell'emicrania.

Radicate nel fondo della mente sono le metafore della brezza e dell'alone luminoso; già sulle pareti delle caverne appaiono esseri divini cinti di un'aureola, sia nella pittura indù che nella cinese alle creature soprannaturali fluttuano la veste e la chioma e un alone le avvolge. … Così forte è la carica simbolica dell'aureola che i romantici facevano escursioni faticose sul Brocken, la montagna delle streghe, per contemplare la loro figura che al crepuscolo, su quelle pendici, si proiettava lucente e trasfigurata nelle nuvole. …

Tanto ci incanta la raggiera dorata di un'aura, nella luce incerta della montagna, sulla spiaggia assolata o nell'alcova notturna!

"Aura" per tutto l'Ottocento è una parola che sale facilmente alle labbra, si applica a nuovi usi con piacere e sollecitudine: un trattato del 1936 attribuisce all'aura del seme la fecondazione, aura è denominato l'effluvio di punte metalliche cariche di elettricità, lo stordimento che precede l'attacco epilettico e per estensione il delizioso smarrimento e la goduta paura che annunciano la possessione nella macuba e nel vudu.

Di poi "aura" è diventata una parola desueta, ed è avvenuto repentinamente, poiché ci si è accorti che oggi si vive tra persone e cose in serie che per antonomasia non irradiano nulla; sottili mortificazioni, inesorabili appiattimenti spengono i luoghi e la gente.

Ormai manca da noi l'occasione di usare la parola. … Ancora accade nelle più remote campagne dell'India, fra i prati ondosi color smeraldo, accanto agli stagni di ninfee: l'intensità degli sguardi stordisce.

Quando nelle profumate serpentine dei mercati persiani transitano tintinnando, le nomadi, si resta abbagliati dai loro occhi dove trema il riverbero del deserto. Si trasale, noi che abbiamo sensi appannati dal diuturno grigiore … "

(Da "Aure" di Elémire Zola – Tascabili Marsilio 1995)

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