giovedì 8 gennaio 2009

Oltre l'urlo dell'indicibile

La voce di Ingebrog Bachmann , la celebre scrittrice e poetessa nata in Austria nel 1926 e morta a Roma nel 1973 - autrice di poesie, romanzi, saggi e racconti - è un urlo silenzioso di dolore, che non si può dire. Solo scrivere.

"Un libro dev'essere un'ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi": questa frase, che si legge in una lettera indirizzata a Kafka e viene ripresa nelle Lezioni di Francoforte (1959-1960), è il punto da cui partire per comprendere l’estetica filosofica e letteraria dell’artista.

La Bachmann spinge la sua indagine esistenziale di donna e scrittrice ad un limite estremo: l'infelicità è la conseguenza di un difetto strutturale della società, che si riflette nella feroce autorità paterna e nella violenza contro gli ebrei, a cui la scrittrice ha assistito da bambina. La scrittura è l'unico mezzo, seppur doloroso e difficile, per guarire le ferite provocate dall'esistenza.

Già nella tesi di laurea dedicata alla filosofia di Heidegger, la Bachmann interpreta il Tractatus di Wittgenstein come tentativo di "mettere ordine" nella lingua, di smascherare il vuoto che si cela dietro la "chiacchiera" esistenzialistica.
In questa dissertazione della Bachmann, come nei due saggi successivi su Wittgenstein del 1951 e del 1953, è interessante la chiara delimitazione del campo del dicibile - il mondo - e di quello dell'indicibile - il mistico: non è compito della filosofia parlare di metafisica.
Questa limitazione del dicibile, però, porta ad un vuoto che non è più solo linguistico, ma esistenziale.

Ora, la Bachmann scrittrice accetta i limiti rigorosi che ha mutuato da Wittgenstein, ma nello stesso tempo ritiene urgente la necessità di superarli.

Ed è in questa direzione che individua l'unico linguaggio autentico nella tensione della parola verso l'indicibile, l'ombra, la tenebra. Un linguaggio che non può essere detto e esplicitato, e che costruisce il risvolto oscuro dell’esistenza, dove la parola riacquista significato e il valore di una speranza.

La Bachmann ritiene dunque che esista per lo scrittore una sorta di obbligo morale ad infrangere il necessario silenzio delle scienze sui sentimenti umani.

In quanto lotta contro il silenzio, la letteratura è rievocazione delle "memorie taciute", dei "crimini accaduti sui luoghi reali del delitto, quelli interiori", e in questo modo diventa una forma particolare di conoscenza, l'unica in grado di gettare un ponte tra noi e una verità che non sia quella astratta della logica:

”Il compito dello scrittore non può consistere nel negare il dolore, nel nasconderne le tracce, nel far nascere illusioni su di esso. Per lui, anzi, il dolore deve essere vero e deve essere reso tale una seconda volta, cosicché noi possiamo vederlo. Tutti, infatti, vogliamo diventare vedenti… E l'arte dovrebbe portare a questo: far sì che, in tal senso, ci si aprano gli occhi”.

Il dolore di cui la Bachmann parla è quello della guerra, quel dolore provato troppo precocemente quando le truppe di Hitler invasero Klagenfurt: l'amara scoperta della volontà di distruzione, del desiderio di supremazia, delle "ombre cupe" che accompagnano la vita di ogni giorno.

Come avviene già in Proust, e poi in Thomas Bernhard, l'esperienza del dolore è insieme motivo e giustificazione dell'attività artistica.

In questo modo la Bachmann giunge anche ad una dimensione politica del tutto nuova all'Esistenzialismo.

Nella coscienza esistenzialistica, infatti, l'uomo sembra essere riportato ad una condizione di totale irresponsabilità nei confronti della società, mentre l'artista ha dinanzi a sé una responsabilità di carattere etico: stabilito il confine tra filosofia e letteratura, e definiti gli strumenti che è possibile usare in ognuno dei due campi, resta da tracciare il limite che separa la lingua della letteratura da quella che usiamo ogni giorno.

"Cattiva lingua", "chiacchiera", "parole di morte", "lingua degli ingannatori", sono espressioni che la Bachmann adopera a proposito di questa lingua opaca, che nasconde la realtà e nega l'esistenza del dolore che sempre accompagna le relazioni interpersonali.

La protesta contro questo uso "per frasi" della lingua - il silenzio - è però solo la necessaria premessa ad una "nuova lingua", che sia espressione di un impulso morale, di un nuovo modo di pensare.

"Una nuova lingua deve avere un andamento nuovo, e questo può accadere solo se un nuovo spirito la abita".

È l'Utopia di Musil che si affaccia di nuovo all'orizzonte della letteratura, un'utopia che "non è uno scopo, ma piuttosto una direzione".

Scrive la Bachmann nella prima delle cinque Lezioni di Francoforte, Domande e pseudodomande:

“La realtà acquista un linguaggio nuovo ogni qualvolta si verifica uno scatto morale, conoscitivo, e non quando si tenta di rinnovare la lingua in sé, come se essa fosse in grado di far emergere conoscenze e annunciare esperienze che il soggetto non ha mai posseduto”.

Non si tratta quindi solo di una esperienza strettamente intellettuale, letteraria e filosofica, ma soprattutto di un nuovo impegno etico, esistenziale.

La Bachmann recepisce l'indicazione di Wittgenstein sul limite del linguaggio, ma segnala la speranza che il sentimento della vita può trovare la sua espressione attraverso la forma artistica della poesia e della narrativa.

Vi è una forte carica utopica nella poetica della Bachmann.

Il tempo ("il tempo dilazionato" come nel titolo di una delle raccolte poetiche) non è neutro, ma esige una presa di posizione.

La parola poetica va alla ricerca dei valori che nella storia sono stati traditi: è per questo che Bachmann afferma la necessità che gli uomini debbano soffrire il loro passato.

Scrive in Malina: “La lingua è il castigo. Tutte le cose devono entrare in essa e debbono poi scomparire secondo la loro colpa e secondo la misura della loro colpa”.

Rispetto alla condizione umana destinata al dolore e alla follia, dunque, l'unica redenzione è la scrittura.

Come aveva esclamato Ulrich ne L'uomo senza qualità di Musil, la nostra vita dovrebbe consistere solo di letteratura. Pensiero e linguaggio portano alla disintegrazione della personalità; resta la letteratura che, mediante un nuovo dispositivo linguistico, interrompe questa corsa verso la tenebra.

La letteratura diventa così l'altro volto dell’esistenza umana, il punto in cui la vita si raccoglie, anziché disperdersi nel delirio. Per questo la Bachmann ha stabilito una condotta di scrittura che è filosofica e letteraria: una scrittura come pensiero raccontato.

Come scrive in Malina, in un passo struggente:

“Io mi riproduco nelle parole e anche Ivan, creo una nuova stirpe, dall’unione mia e di Ivan viene al mondo ciò che la creazione ha voluto: /Uccelli di fuoco/ Azzurrite / Tuffo di fiamme / Gocce di giada”.

L’Io che scrive

Nella lezione che porta questo titolo, la Bachmann ripercorre con lucidità l’itinerario e la trasformazione dell’Io che scrive nell’arco di tempo che va dal XIX al XX secolo: da Proust, Céline e Dostoevskij a Svevo e Beckett.

Alla fine dell’800 l’Io pone sé stesso al centro della storia e illumina gli eventi. Più tardi, invece, l’Io si dissolve, ed è la storia ad essere nell’Io.

Questo nuovo abisso, questa perdita di certezze, rappresentano un nuovo modo di trattare il tempo.

Nella Recherche di Proust l’”Io scompare per lunghi tratti”, l’Io di Beckett “si perde in un mormorio”.

Eppure, conclude la scrittrice, “non è forse vero che la letteratura continuerà sempre in situazioni nuove e con parole nuove a dare voce all’Io? Non esistono infatti dichiarazioni ultime. Il miracolo dell’Io è appunto questo: dovunque parli, l’Io vive”.

Letteratura come utopia

In questa lezione magistrale, l’ultima delle cinque, la Bachmann si chiede cosa significhi il termine “letteratura”, quale sia il suo ruolo nel mondo moderno, e che senso abbia oggi scrivere quando il meglio – probabilmente - è già stato espresso.

Dopo aver affermato che lo stesso sostantivo “letteratura” è utilizzato spesso in termini dispregiativi o addirittura offensivi, e che essa è “omni-comprensiva, elastica definizione di una cosa apparentemente chiara, voltata e rivoltata cento volte e non solo dalla scienza”, dice:

“Ma la letteratura non è un fatto compiuto, essa è il territorio più aperto, più aperto ancora di quelle scienze in cui ogni nuova scoperta soppianta le vecchie… Essa preme contro di noi, e ci fa intendere che nessuna delle sue opere è datata, perché esse contengono tutti quei presupposti che si sottraggono ad ogni accordo e catalogazione definitivi. Questi presupposti vorrei provare a definirli utopici… La letteratura conosce soltanto il proprio intento fortissimo di influenzare ogni presente”.

E aggiunge: “Per fortuna, in questo paese di Utopia della cultura esiste una componente di utopia molto più pura, una specie di tendenza da seguire quando la nostra cultura non potrà più salvare la faccia nemmeno nelle più solenni festività… L’importante è continuare a scrivere. Certo, continueremo a tormentarci con la parola letteratura, con quello che essa è e con quello che noi crediamo che sia… Ma di questo dobbiamo rallegrarci, perché se ci sfugge è per amor nostro, per rimanere in vita e legare la nostra vita alla sua in quelle ore in cui scambiamo il nostro respiro con il suo. Letteratura come utopia – lo scrittore come esistenza utopica – i presupposti utopistici delle opere”.


Bachmann, Ingeborg
Letteratura come utopia
Bachmann, Ingeborg Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte Adelphi, 1980 (ristampa 1993) pp. 128 euro 10.33 Traduzione di Vanda Perretta

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