lunedì 31 ottobre 2011

James Hillman


Scrive Ivan Battista Su Il Futurista di sabato scorso:




Giovedì scorso (27 ottobre) se ne è andato James Hillman, uno degli psicologi junghiani più famosi e affascinanti al mondo. 


I suoi libri ci hanno tenuto compagnia confortandoci per decenni oltre che fornirci spunti di riflessione validi per la nostra formazione di psicologi e psicoterapeuti. 


Anima, Fuochi blu, il coinvolgente e seguibile best seller Il codice dell’anima, Il mito dell’analisi, Il sogno e il mondo infero, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, La forza del carattere, La vana fuga dagli Dei, Puer aeternus, Re-visione della psicologia, lo straordinario Saggio su Pan, lo sconcertante e attualissimo
Un terribile amore per la guerra, sono solo alcuni tra i suoi scritti più importanti. 


Statunitense nato ad Atlantic City, classe 1926, si è spento a causa di un tumore osseo nella sua casa di Thompson nel Connecticut, respingendo, in piena coerenza coi suoi convincimenti, le cure più invasive che avrebbero potuto compromettergli la lucidità del pensiero. 


Laureato in medicina, si forma al Carl Gustav Jung Institute e giunge a rivedere il pensiero del grande psichiatra svizzero fornendo una nuova lettura della teoria degli archetipi. 


Era amico di Aldo Carotenuto, altro grande junghiano scomparso nel 2005 e che fu uno dei miei maestri. A volte, quando ero da Aldo, sentivo che lo chiamava al telefono e che parlavano, scambiandosi idee e suggerimenti, Aldo col suo inconfondibile accento italo americano. 


In psicoterapia il merito più rilevante di Hillman è stato quello di aver cambiato il rapporto tipicamente medico tra terapeuta e paziente e di aver focalizzato due importanti dinamicità psichiche: l’archetipo e l’anima. Io l’ho conosciuto soltanto attraverso i suoi scritti e qualche intervista televisiva, ma il suo tocco di scrittore fluido e seguibile e la sua onestà di pensiero me lo hanno reso molto caro. 


Periodicamente riprendo in mano le sue opere perché, essendo portatrici di alta qualità, a distanza di tempo tra una lettura e l’altra, riescono a fornirmi di continuo cose nuove e formative in consonanza con la mia crescita umana e professionale. 


Fondatore della psicologia archetipica, oltre ad aver sviluppato ed esaminato il pensiero di Jung, creò nel 1980 il Dallas Institute of Humanities and Culture. 


Soprannominato il poeta dell’anima, per la grazia del suo pensiero, ultimamente aveva tralasciato l’inconscio collettivo, i simboli e gli archetipi virando verso l’interpretazione degli avvenimenti sociali.


Chiunque investighi il senso della vita non può non prendere in mano i libri di James Hillman, sfogliarli e restare incantato dall’originalità delle riflessioni di questo grande psicologo. Addio James e grazie con tutta l’anima per quello che ci hai trasmesso e offerto per sempre."

domenica 30 ottobre 2011

Samhain o Halloween


Presso i popoli antichi la celebrazione di “Ogni Santi” iniziava al tramonto del 31 Ottobre ed è per questo che la sera precedente al 1° Novembre era chiamata “All Hallows’Eve” (da “Even” che significa sera) che venne abbreviato in Hallows’Even, poi in Hallow-e’en ed infine in Halloween.

La celebrazione di Halloween ha, però, addirittura, origini ancor più antiche risalenti all’antica civiltà Celtica. Infatti i Celti che vivevano in Gran Bretagna, Irlanda e Francia, festeggiavano l’inizio del nuovo anno il 1° Novembre, giorno in cui si celebrava la fine della stagione calda e l’inizio della stagione delle tenebre e del freddo. Questa notte, tra il 31 Ottobre ed il 1° Novembre era chiamata "Notte di Samhain".

Tutte le più importanti leggende in cui si narrano cicli epici, antiche saghe e grandi battaglie, si svolgevano proprio in questa notte. Molte di queste leggende riguardavano la fertilità della Terra ed il superamento cosmico, terrore e panico l’inizio del regno semestrale del dio delle Tenebre: Samhain.

I Celti, credevano che alla vigilia di ogni nuovo anno Samhain, Signore della Morte e principe delle Tenebre, chiamasse a sé tutti gli spiriti dei morti, e temevano che in tale giorno tutte  le leggi dello spazio e del tempo fossero sospese, permettendo al mondo degli spiriti di unirsi al mondo dei viventi e cercare, tra essi, nuovi corpi da possedere.
E’ proprio per questo che molte leggende narrano di come i Celti bruciassero coloro che ritenessero “posseduti” come avvertimento per gli spiriti. Gli spiriti maligni, infatti, potevano prender forme differenti, anche di animali e la figura più malvagia era quella del Gatto. 

Ecco perché al crepuscolo veniva acceso il fuoco con il quale si bruciavano offerte, si facevano scongiuri e si lanciavano incantesimi per allontanare dal villaggio le anime dei morti e guidarle nella Terra dei Morti. Un’altra antica leggenda, addirittura narra che in Irlanda in un luogo denominato Mag Sleht, ogni primogenito fosse sacrificato, nella notte di Samhain, in onore di Cromm Cruac, che era una divinità maligna.


L’usanza moderna di travestirsi in questo giorno, nasce dalla tradizione che sempre i Celti avevano nel travestirsi, la notte del 31 Ottobre, con le pelli degli animali uccisi per esorcizzare e spaventare gli spiriti. Vestiti con queste maschere, ritornavano al loro villaggio illuminando il cammino con lanterne costituite da cipolle intagliate.
Nella tradizione celtica, non esistono diavoli, né demoni, tuttavia le Fate erano spesso considerate ostili e pericolose dagli uomini che erano risentiti del dover condividere con loro le proprie terre. 

Numerose leggende, così, narrano che nella notte di Samhain le Fate erano solite fare alcuni “scherzetti” agli umani, intrappolandoli nelle “Colline delle Fate” per sempre. I Celti, dunque, per guadagnarsi il favore delle Fate, erano soliti offrire cibo o latte che veniva lasciato sui gradini delle loro case.

Un’altra origine del detto Trick or Treat (dolcetto o scherzetto) si fa risalire quando i primi cristiani, in cammino da un villaggio all'altro  elemosinavano per un pezzo di "dolce dell’anima", semplicemente del pane. Più “dolci dell’anima” una persona riceveva, tante più preghiere queste persona prometteva di recitare per i defunti della famiglia dalla quale aveva ricevuto il pane.

E’ proprio da queste leggende che ha origine il famoso gioco del “Dolcetto o Scherzetto” nella quale i bambini travestiti con maschere e costumi mostruosi, vanno di casa in casa, chiedendo dolcetti  o qualche monetina e se non ricevono alcuna cosa, possono giocare un brutto scherzo ai proprietari di quella casa.

Quando durante il I secolo i Romani invasero la Bretagna, vennero a contatto con queste celebrazioni. Anch'essi intorno al 1° Novembre onoravano Pomona, la dea dei frutti e dei giardini, a cui venivano offerti frutti per propiziare la fertilità futura.

Con il passar dei secoli il culto di Samhain e quello di Pomona si unificarono e l’usanza dei sacrifici fu abbandonata, lasciando al suo posto l’offerta di effigi da bruciare e l’usanza di mascherarsi da fantasmi e streghe. Malgrado l’avvento del Cristianesimo, le tradizione rimase molto radicata nella popolazione.

Nelle altre aree Europee, in cui la popolazione era prevalentemente pagana, si credeva nell’esistenza delle streghe e della stregoneria. E due erano le date più importanti: il 30 Aprile ed il 31 Ottobre. Il 30 Aprile era celebrato, nell’area dell’attuale Germania, la “notte di Valpurga” in cui si credeva che le streghe si radunassero sulla cima delle montagne per adempiere alle loro stregonerie ed evocare diavoli e demoni. Il Sabbath, invece, celebrato il 31 Ottobre, era chiamato Black Sabbath.

Visto che la Chiesa Cattolica non riusciva a sradicare questi antichi culti pagani, escogitò un tentativo per far perdere il profondo significato di questi riti. Infatti nell’835 Papa Gregorio spostò la festa di Tutti i Santi dal 13 Maggio al 1° Novembre. Ma questo non bastò e la Chiesa si vide costretta nel X secolo ad imporre un’altra festa: il giorno dei Morti il 2 Novembre.

Questo è un articolo trovato su Napoli.com scritto da Lisa Marino


Invece io ne avevo scritto anche qui http://estateincantata.blogspot.com/2009/10/31-ottobre-samhain-halloween-ognissanti.html



sabato 29 ottobre 2011

Il Principe delle Maree





"IL PRINCIPE DELLE MAREE.


Lettura in chiave Sophiartistica di Barbara Borelli.


Tanti anni fa, la visione di questo film mi sconvolse…
E’ per questo motivo che l’ho scelto come primo film di cui fare una lettura sophiartistica.
Ricordo ancora il profondo malessere che mi pervase durante la sua visione; da qui voglio partire, voglio entrare in contatto con quella sofferenza per poterla decodificare, la voglio accogliere per trasformarne il dolore.
Dopo l’odierna visione della pellicola, non mi è difficile capire i motivi del mio disagio di allora: io mi rispecchio fedelmente nel protagonista, fino ad oggi sono stata una perfetta Tom Wingo…
Il film comincia con la voce fuori campo di Tom che descrive la sua infanzia: “…Ci sono famiglie che vivono tutta la loro vita senza che capiti loro qualcosa di interessante, io ho sempre invidiato quelle famiglie…” e poi ancora: “…tutto questo è successo tanto tempo fa, prima che decidessi di non avere memoria…” e quelle particolari luci che avvolgono le sequenze dei ricordi, come se tutto emergesse dall’inconscio…
E’ la storia di una famiglia del Sud degli Stati Uniti, composta da tre figli, un padre violento ed una madre superficiale, ma soprattutto, è la storia di come un segreto possa pesantemente condizionare la vita delle persone.


Anch'io, come Tom Wingo, sono sempre stata molto brava a mantenere i segreti, anzi, vado oltre, li rimuovo proprio…come se non fossero successi… “mettiamoci una pietra sopra…” mi sono sentita consigliare da sempre…andiamo avanti…perchè è più semplice indossare la maschera del fare finta che tutto ciò non sia accaduto piuttosto che elaborare il proprio doloroso vissuto…


-E’ il modo del Sud, quando le cose diventano troppo dolorose, o le evitiamo o ci ridiamo su.
-E quando piangete secondo il modo del Sud?
-Noi non piangiamo!
E poi?...Come si potrà convivere tutta la vita con quegli invisibili mostri interiori che sono i nostri sensi di colpa?
Prima o poi dovrò affrontarli, prima o poi anch’io dovrò decidermi a fare quella corsa a perdifiato sulla spiaggia, incontro al buio, incontro a me stessa, come fa Tom prima di andare a New York, prima di cominciare a ricordare.


A New York Tom incontra la dr.ssa Lowenstein, che ha in cura la sorella Savannah dopo il suo ennesimo tentativo di suicidio. Il nostro protagonista, per amore della sorella, deve esserne la “memoria” aiutando così la dr.ssa a curarla. Il destino a volte gioca brutti scherzi, proprio lui, così bravo a rimuovere il dolore, per poter aiutare la sorella, è ora costretto a ricordare…
Tom ha imparato molto bene come nascondere il suo dolore, lo ha fatto per tutta la vita e non riesce quindi ad aprirsi alla dr.ssa Lowenstein.


I suoi complessi hanno mille tentacoli e lo immobilizzano. Anche il suo rapporto con la moglie Sallie risente di questa prigionia, perché non riuscendo a per/donarsi e a per/donare (in primis la madre) si rifiuta di donarsi, non riesce ad amare libera/mente se stesso e gli altri. Si dedica alla propria famiglia con tutte le sue forze, ma non è un amore sano, perché non è libero, è prigioniero dei propri sensi di colpa.


Il nostro inconscio erige corazze difensive tali, da non permettere neppure all’amore di scalfirle…e col passare del tempo, la corazza da difensiva diventa offensiva, perché ci rende statici, ci blocca nei confronti degli altri.


Tornato a casa per il compleanno della figlia minore, la moglie gli comunica che intende lasciarlo. E’ sconvolto, il suo mondo gli sta crollando addosso, è il momento di trovare il coraggio di affrontare il proprio dolore, è il momento di scegliere fra la Verità e la menzogna, fra l’Amore e l’odio. E’ giunto il momento di aprirsi al proprio Sé, rappresentato dalla dr.ssa Lowenstein, e dirle il gran segreto.
Tom racconta di una violenza subita da bambino insieme alla madre e alla sorella da parte di 3 evasi dal carcere e di come la madre Lila avesse ordinato ai figli di tenere segreto l’episodio ricattandoli.
-Se avessimo aperto bocca avrebbe smesso di essere nostra madre… ci ha detto che presto sarebbe stato giorno e che tutto sarebbe sembrato meglio alla luce del sole, poi mio padre è venuto a casa per la cena, ci siamo seduti a tavola ed abbiamo mangiato come se non fosse successo niente
e le immagini agghiaccianti di quella ‘normale’ silenziosa cena di famiglia, con tutte le vittime imbavagliate attorno al tavolo della vergogna, prigionieri del loro ‘modo del Sud, incatenati dai mille tentacoli dei sensi di colpa, e Savannah che si era messa il vestito alla rovescia e che 3 giorni più tardi cercò di uccidersi…lei poteva stare zitta, ma non sapeva mentire,
- Perché io credo che il silenzio fosse peggio della violenza carnale.


Aprendosi alla dr.ssa, confidandole il segreto, Tom fa emergere la Verità, quella Verità che lo libera dai ricordi che lo perseguitano.
Anch’io, ad un certo punto della mia vita, ho dovuto affrontare, come un eroe, i miei traumi infantili a spada tratta; è forse per questo motivo che mi piace tanto la mitologia greca, perché bisogna essere degli eroi per affrontare il drago che è dentro di noi, vincerlo e liberarsene.


Ora sì che possiamo dire di essere liberi, quella libertà che non deriva dal denaro o dal possesso delle cose materiali. Siamo liberi di quella libertà derivante dall’aver affrontato, vincendolo il nostro invisibile mostro interiore.


E’ questa la sintesi degli opposti, è così che si trasforma il dolore in energia creando nuova Bellezza. Lì per lì è come… un salto nel buio, sembra di doversi buttare dalla rupe di Sparta, ci vuole coraggio per affrontare la Verità, ci vuole coraggio per… accettarsi, ma bisogna essere fiduciosi, confidare che il proprio Sé ci indichi la strada.


Finalmente il nostro novello Ulisse, ormai saggio e libero dalla prigione dell’io, ritorna alla sua Itaca, ritrovando l’amore della moglie Penelope che lo ha aspettato. Durante il suo viaggio ha imparato ad amare se stesso e gli altri nella libertà ed ha abbandonato il progetto vendicativo comprendendo le imperfezioni dei genitori: è riuscito ad uccidere i Proci che albergavano nel suo cuore.
“…per la prima volta ho sentito di poter dare io qualcosa alle donne della mia vita, lo meritavano. Così sono tornato alla mia casa del Sud, ed è in presenza di mia moglie e delle mie figlie che io riconosco la mia vita: il mio destino. (…) 


A New York avevo imparato che dovevo amare mia madre e mio padre con tutta la loro imperfetta vergognosa umanità e che in una famiglia non esistono crimini che non possono essere perdonati, ma è il mistero della vita che ora mi sostiene e guardo verso il Nord e vorrei tanto che ci fossero due vite concesse a tutti gli uomini e tutte le donne…”


... e scorrono le immagini del trionfo della Bellezza: Tom, Sallie e le figlie abbracciati sulla spiaggia nella circolarità dell’amore.


Da parte mia, sarò più sintetica del nostro protagonista: penso che ogni persona, a qualunque età, sia sempre in tempo, se lo vuole, a trascorrere un’infanzia felice…


Barbara Borelli su Microcosmo

Prima e dopo

Siamo arrivati a sabato, l'ultimo di questo mese di ottobre.
Riporto una citazione che mi fa riflettere o, meglio, con la quale 
mi piace giocare anche con altri momenti della vita:
Non più, Non ancora.


Durante tutti gli anni che trascorse in America, Hannah Arendt parlò solo rare volte della sua infanzia.
Molto prima che l'ultimo dei suoi parenti lasciasse la casa di famiglia, a Konigsberg nella Prussia orientale, e che la città venisse prima distrutta e poi ricostruita come Kaliningrad, Unione Sovietica, la Arendt aveva già a più riprese scandito la sua vita in "prima" e "dopo".

Ogni volta che lo faceva, il "prima", l'infanzia, diveniva sempre più una faccenda privata, un segreto.


A diciott'anni, studentessa di teologia all'Università di Marburg, prese l'abitudine di operare questa cesura temporale, traducendola nel linguaggio poetico del suo maestro, Martin Heidegger:
"non più" e "non ancora"

venerdì 28 ottobre 2011

Quelli che muoiono presto

Riporto qui un articolo di Massimo Gramellini pubblicato su La Stampa di oggi ma ripreso da Triskel

Da sempre la morte rende mitici i giovani che la incontrano lungo la strada dei propri sogni. Ma forse la tantissima Italia che si è innamorata post mortem di un motociclista che fino alla settimana scorsa era noto soltanto agli appassionati cerca di raccontarci qualcosa di più. 

Il fenomeno Simoncelli ha colto di sorpresa persino i suoi amici, che continuano a ripetere: non immaginavamo fosse così amato. Infatti non lo era, prima della tragedia, se non nel cerchio magico che ieri si è stretto intorno alla sua bara, in uno dei funerali più coinvolgenti a cui mi sia capitato di assistere in televisione: confesso che quando Valentino Rossi ha fatto rombare la Honda numero 58 in mezzo alla navata centrale della chiesa, le lacrime sono franate a valle senza incontrare resistenza. 

Da qualche giorno Simoncelli è il nome più ricercato sul Web e il titolo più letto sui giornali. 
Certo: è morto giovane come il Grande Torino, come James Dean. 
E in quel modo orribile, riproposto ossessivamente dalla tirannia delle immagini che governa le nostre emozioni. Però c’è dell’altro. 
C’è che Simoncelli non era un campione consacrato, ma una potenzialità. Era quel verbo futuro che non riusciamo a coniugare nelle nostre vite, appiattite in un eterno presente senza traguardi né desideri che non siano la difesa angosciata dell’esistente. 

La sua fine ci commuove e ci spaventa. Perché è come se ci avessero ammazzato il futuro, dando forma a una nostra paura profonda. E mette i brividi, adesso, riascoltare i versi della sua canzone preferita, l’anacoluto più famoso e terribile di Vasco e dell’intera musica italiana: "Siamo solo noi. Quelli che poi muoiono presto. Quelli che però è lo stesso".
In un mondo sempre più distratto affannato da tematiche materiali, rivoluzionarie, dove lo sconcerto porta alla alienazione, l’egoismo imperversa quale regola,  quattro passi nella dimensione del cuore e dello spirito assetati di bellezza, semplicità e verità-ci aiutano a ridestare nel cuore e nell’anima quel che vi è in noi tutti di umano e buono.


Ho trovato alcuni versi di autori, anzi di autrici sconosciute e li riporto qui di seguito.



Un sasso è più vivo di me
inoquo,
sa amare la solitudine.
L'indifferenza è l'unico sentimento che possiede.
Chi ama?
Chi odia?
Nessuno.

Io giudico, disprezzo.
Io cerco il diverso.
L'uomo è diverso,
non sa tacere.
Perché?
Egli odia la solitudine.

E il sasso?
È migliore.
Non combatte la vita,
tace a ogni malinconia.
Il sasso vive senza emozioni in un mondo reale.
L'uomo vive per i sogni in un mondo d'illusioni.
Helen Morrison 





Mille colori mille suoni
I sapori, gli odori, le emozioni
Il vento freddo che spazza le foglie
Il lento tappeto che si crea su strade e prati.

I lunghi viali alberati si addobbano di tinte rosse e marroni
ed il cielo si fa sempre più limpido verso la sera...
I fiumi che corrono veloci per la loro scia
E gli stormi che volano nel cielo...

E tutto si fa più allegro, più vivo ma per me c'è ancora tristezza,
c'è ancora qualcosa che opprime la mia felicità.
E spero un giorno di capire il Perché...
Jessica Pasotto

giovedì 27 ottobre 2011

A lungo durerà il mio viaggio

A lungo durerà il mio viaggio e lunga è la via da percorrere. Uscii sul mio carro ai primi albori dei giorno, e proseguii il mio viaggio attraverso i deserti dei mondo lasciai la mia traccia su molte stelle e pianeti. Sono le vie più remote che portano più vicino a te stesso; è con lo studio più arduo che si ottiene la semplicità d’una melodia.


 Il viandante deve bussare a molte porte straniere per arrivare alla sua, e bisogna viaggiare per tutti i mondi esteriori per giungere infine al sacrario più segreto all’interno del cuore. I miei occhi vagarono lontano prima che li chiudessi dicendo: "Eccoti!" Il grido e la domanda: "Dove?" si sciolgono nelle lacrime di mille fiumi e inondano il mondo con la certezza: " lo sono! "


Rabindranath Tagore

L'Arena.it - Aldo Cazzullo

L'Arena.it - Temi Continuativi - Cultura & Spettacoli - Teatro:


29 ottobre. Torna sabato prossimo (alle 21) al Teatro Nuovo Viva l'Italia, spettacolo di Aldo Cazzullo per la regia di Paolo Valerio. A Verona ha debuttato un anno fa, poi una tournee lunghissima in lungo e in largo per l'Italia.

Il lavoro del giornalista del Corriere della Sera parte dal libro omonimo, edito da Mondadori che mette il dito nelle piaghe del Risorgimento, della Grande Guerra e della Resistenza per cercare, stanare, scovare con arguzia e acume intellettuale i motivi per cui "dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione".

Viva l'Italia è spettacolo sicuramente provocatorio. In primo luogo perché si parla di Risorgimento in un'epoca dove sembrano prevalere particolarismi, frammentazioni regionalistiche, campanilismi locali e individualismi.
In terra della Lega poi è a dir poco una sfida politica. Parole come unità e Nazione hanno poco a che fare con l'immagine folcloristica di una Italia dipinta come penisola da "pizza e mandolino".

Ma Viva l'Italia non è per questo nostalgico o revisionista. Anzi: "Contro la retorica consolatoria del Paese più bello del mondo", scrive l'autore "in difesa dell'unità nazionale e di un dato storico: in epoche diverse, gli italiani hanno dimostrato di saper combattere per un'idea di Italia che non fosse solo quella del Belpaese". Messaggio forte, detto con le forme del teatro.
Sul palco, oltre al regista Paolo Valerio, ci sono Michele Ghionna, Andrea De Manincor e Sabrina Modenini. Musica dal vivo con il pianoforte di Sabrina Reale. La scenografia sarà costruita con proiezioni di immagini (anche video) a cura di Roberto Guglielmi.
E sul palco c'è pure Cazzullo: osserva e commenta la dimensione più spettacolare affidata ad attori e musicisti. Lui invece legge brani tratti dal saggio (cominciando da quello che dà il titolo al libro): dalle lettere dei volontari della Grande Guerra alle testimonianze di Cavour su Garibaldi. Nomi e fatti: il colonnello Montezemolo, Carlo Alberto, Carlotta Aschieri, preti, operai, generali, irredentisti e fucilati, impiccati, morti nelle trincee, un filo rosso che lega nello sforzo, nella fatica di costruire una nazione e uno Stato da Nord a Sud perché, afferma il giornalista, "il Nord, senza il Sud, sarebbe deprivato di senso".

Aforismi di Sylvia Plath »

mercoledì 26 ottobre 2011

De-globalizzare per sopravvivere


Deglobalizzare per sopravvivere

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pubblicato sul Fatto Quotidiano del 15 ottobre 2011

Alle primarie socialiste francesi Arnaud Montebourg, 48 anni, che rappresenta la sinistra del partito, ha preso

 il 17% dei voti proponendo la de globalizzazione attraverso il ritorno a un forte protezionismo.

Mi fa piacere perché è quanto vado proponendo, nei miei libri e col mio micromovimento cultural-politico, 

Movimento Zero, da una quindicina d’anni (un tema che, incidentalmente, avevo ripreso, sia pure in estrema 
sintesi, nello scorso Battibecco), anche se io parlo di autarchia europea, Montebourg, più prudentemente, di 
protezionismo, ma sostanzialmente si tratta della stessa cosa.

Il successo di Montebourg significa che una parte della base della sinistra francese comincia a rendersi conto 

degli effetti devastanti della globalizzazione e della mondializzazione (anche se si tratta di due concetti diversi: 
il primo è economico e riguarda la “reductio ad unum” dell’intero esistente al modello di sviluppo occidentale; 
il secondo la tendenziale unificazione del mondo in un unico Stato, a guida americana, naturalmente), terreno 
finora coltivato da nicchie culturali di destra.

È un programma, quello di Montebourg, che se non altro ha il pregio della diversità. In Italia siamo invece all’encefalogramma piatto. Il dibattito politico si riduce all’eterna diatriba tra berlusconiani e antiberlusconiani 

che ha finito per stancare tutti, almeno quelli che non si sentono di appartenere a nessuna di queste due 
squadre.

Intendiamoci, il discorso della legalità è importante: è il minimo comun denominatore perché una comunità 

possa tenersi insieme. Ma non basta. Epperò anche le rare volte che destra e sinistra escono dalla zuffa 
permanente non fanno che riproporre le solite, muffe, ricette, la crescita, la modernizzazione, insomma 
l’adesione acritica al paranoico modello del produci-consuma-crepa che è anzi diventato un ancora più 
demenziale consumare per produrre.

Anche se gli attuali esponenti della destra e della sinistra sono delle mediocri banalità, le ragioni di queste loro 

incapacità di uscire da quello che viene chiamato il “pensiero unico”, sono tutt’altro che banali. Marxismo e 
liberismo, destra e sinistra nelle loro varie declinazioni sono in realtà due facce della stessa medaglia: 
la Modernità. Sono entrambi figli della Rivoluzione industriale, illuministi, ottimisti, positivisti, economicisti,
hanno entrambi il mito del lavoro (per Marx è “l’essenza del valore”, per i liberisti è esattamente quel fattore 
che, combinandosi col capitale, dà il famoso “plus valore”) e si sono illusi che industria e tecnologia avrebbero
prodotto una tale cornucopia di beni da rendere felici tutti gli uomini (Marx) o quantomeno la maggior parte 
di essi (i liberisti). 
Questa utopia bifronte è fallita. Io vedo marxismo e capitalismo come due arcate di un ponte che si sono 
sostenute a vicenda per due secoli e mezzo. Il crollo del marxismo prelude quindi a quello del capitalismo il cui sgretolamento sta avvenendo sotto i nostri occhi e alla cui fine ci aspetta una catastrofe planetaria. 
Ma gli stanchi epigoni del capitalismo e di quel che resta del marxismo non sono in grado di mettere in 
discussione radicale la Modernità, perché categorie di destra e di sinistra della Modernità sono nate, 
nella Modernità si sono affermate, e quindi non possono recidere le proprie radici anche se tutti vedono che 
sono già marce e che, se non si cambia rapidamente direzione, l’albero cadrà da solo.

Massimo Fini


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